I Golden State Warriors infrangono il record di vittorie in regular season, superando dopo 20 anni netti i Chicago Bulls di Michael Jordan, e questa non è la notizia della notte . Possibile? Sì, e perfino giusto se nella stessa notte un signore di nome Kobe Bryant gioca la sua ultima partita ufficiale.
Non solo: Kobe Bryant segna anche 60 punti, rimontando da solo una squadra (gli Utah Jazz) e centrando la quinta miglior prestazione realizzativa della carriera. Basterebbe questo per alzarsi in piedi e applaudire. Basterebbe, ma non basta. E non basteranno tutte le parole che da qui ad anni, e che da qui a molti giorni fa – da quando annunciò l’addio con largo anticipo – si spenderanno e sono state spese per celebrare e raccontare il fenomeno Kobe Bryant.
E dunque, nemmeno il sottoscritto si soffermerà a usare parole. E’ giusto così: ognuno ha il suo momento personale per ricordare 20 anni di carriera nei Los Angeles Lakers. Ognuno ha amato o odiato Kobe Bryant, ognuno ne ha conservato una memoria personale, ognuno ha la sua opinione. Più forte di Jordan? Nei primi cinque della storia? Semplicemente un grande giocatore, come tanti ce ne sono stati? Impossibile rispondere. Epoche diverse, squadre e compagni diversi, situazioni diverse.
Se però oggi, che ha appeso le scarpette al chiodo, tutti sono unanimi nel celebrarlo, significa che Kobe Bryant qualcosa deve averla lasciata. Per chi scrive, il momento in cui ha deciso che Bryant sarebbe stato Bryant coincide con gara-7 della finale della Western Conference, contro i Portland Trail Blazers. Kobe era al quarto anno nella Lega, e quelli erano i Lakers di Shaquille O’Neal.
Ma Shaq quel giorno aveva problemi di falli, frustrato da un monumentale Rasheed Wallace. E allora, con i Lakers sotto di 15 – in casa – a 10 minuti dalla fine, iniziò la leggenda di Kobe Bryant. 25 punti, 11 rimbalzi, 7 assist e 4 stoppate: a 22 anni quello che era ancora il numero 8 portò i Lakers in finale dopo 9 anni, e di lì a poco al primo titolo in 12 stagioni.
Un giorno Del Harris non aveva a disposizione Eddie Jones, la guardia titolare dei Lakers; decise che quel ragazzino di 18 anni sarebbe entrato in quintetto. Jerry West, che non senza elaborate manovre portò Bryant in gialloviola – e che sarebbe anche il proprietario della silhouette che campeggia sul logo della NBA – prese da parte l’allenatore e gli disse: “Se tu oggi lo fai giocare titolare, sappi che non lo toglierai mai più dal quintetto”.
Naturalmente aveva ragione; e adesso che la giostra si è fermata e contiamo i titoli che questo signore ha accumulato in carriera, e che non sono nemmeno la parte principale della leggenda, ci rendiamo conto che forse Kobe Bryant, davvero, non si riposerà mai.
Quando giocava al liceo si diceva che nel primo tempo giocasse male apposta, così da poter rimontare e vincere giocando il ruolo dell’eroe. Se ci pensate, la sua carriera si è chiusa esattamente così; e ancora una volta, Kobe Bryant ha vinto. Grazie. Ci mancherai, ma averti visto giocare è stato un privilegio.
(Claudio Franceschini)