La Fiera dell’Artigianato giunta alla sua sedicesima edizione è ormai un appuntamento consolidato nei giorni prenatalizi e anche su questo giornale se ne parla molto. Perciò non è necessario descriverne l’ampiezza, la versatilità, l’allestimento, la folla di visitatori, i colori, i profumi che la rendono un fenomeno unico.
Limitando l’osservazione agli stand delle regioni italiane, con un breve sconfinamento in Francia, ciò che appare degno di nota è la creatività e la concretezza di molti articoli. Il confronto è schiacciante se, usciti dai padiglioni di Rho e giunti in centro a Milano si osservano le molte vetrine scintillanti e i prodotti di serie che il mercato offre a profusione. Ciò che viene creato con una perizia che ne fa un oggetto originale non è per ciò stesso sempre migliore della merce proveniente dall’industria, ma certo nel primo caso si avverte un calore che va di pari passo con la cordialità dell’artigiano, che guarda e promuove il frutto delle sue mani con una partecipazione ignota altrove, con una fierezza quasi da bambino adulto, che sa di aver fatto una cosa bella.
Il segreto sta forse nelle risorse di originalità, di fantasia e di gusto per cui l’Italia è famosa nel mondo e contribuisce alla sua vita con un dono di bellezza? Forse è così, ma oltre a questo c’è anche l’amore al lavoro che in ogni caso è fatica, ripetizione, intuito, programma. In questa fiera c’è lo spettacolo del lavoro, che è rapporto con la materia ma anche relazione con altri uomini, sconosciuti e potenziali acquirenti. Perché il lavoro è anche sostegno della famiglia, è guadagno.
E allora appare un’Italia di cui raramente si parla. Non quella delle chiacchiere e della vanità, ma quella di una solida attività, illuminata dall’estro e dalla maestria della manualità.
In modo non molto diverso hanno operato i tanti scrittori e poeti che hanno adoperato la materia delle parole al posto delle pietre, dei tessuti, del legno, dei prodotti della terra. E allora si capisce la contiguità semantica di arte e artigianato, si intuisce che in ogni opera umana, non solo nelle cose più sublimi, ma anche in quelle di uso quotidiano, c’è il connubio di ingenium et ars, a cui Orazio attribuiva il merito della creazione più pura.
Forse perché nella sua Firenze Dante avrà osservato il lavoro dei sarti, ha fatto diventare poesia la fatica di infilare l’ago nella cruna; forse perché Machiavelli avrà notato il lavoro pesante di chi rinforzava gli argini dei fiumi ha potuto dettare la legge politica che in tempi di prosperità bisogna premunirsi per quelli di sventura, e che in caso contrario la piena avrebbe prodotto ruina; forse perché Leopardi, chiuso nella casa avita, vedeva il lavoro della tessitrice e ascoltava il canto del contadino sul far della sera, ha potuto dischiudere alla vita quotidiana l’altezza di una grande poesia; forse perché Caproni amava sua madre ha lasciato i tratti della sua opera di ricamatrice, forse perché Betocchi amava la sua città ha descritto i suoi camini, forse perché Noventa era così attaccato alla sua terra, scriveva del possibile inganno della poesia, che consiste nel credere sacra l’arte e la gloria, più che l’onore. Non solo per lui il rischio del lavoro umano è farne il valore assoluto, inseguire il successo e tralasciare ciò che ci rende uomini.
Perciò non si può che tornare a Virgilio, l’unico poeta antico che abbia celebrato il lavoro umano come una benedizione: perché, per usare le sue parole, fortunati sono coloro che studiano e che conoscono la causa delle cose, ma fortunati sono anche coloro che invocano umili gli dei perché favoriscano il loro lavoro. E soprattutto non si può non tornare a san Benedetto, che ridando con un miracolo a un monaco goto la falce caduta nel lago, gli disse: “Tieni, lavora, e sii contento”.
Perciò l’augurio per la Fiera dell’Artigianato, per gli espositori e per i visitatori, è sì quello di buoni affari e anche di diventare più consapevoli delle proprie risorse, al servizio di qualcosa che sia più del denaro.