Il caso Sole 24 Ore sta scivolando nella cronaca giudiziaria e nel game power fra politica e affari. Poco evitabile la prima deriva, dopo l’avvio di indagini da parte di Consob e Procura di Milano e la visita della Guardia di finanza nella sede del gruppo. Indagini a loro volta “dovute” dopo il tempestoso cda che ha approvato – all’ultimo istante – una semestrale molto problematica: con l’amministratore delegato Gabriele Del Torchio all’ospedale per attacco cardiaco e il presidente Giorgio Squinzi (fino a pochi mesi fa leader di Confindustria) polemicamente dimissionario. Inevitabili i fari delle diverse autorità dopo che la stessa Ads – l’organismo autogestito dagli editori per l’accertamento della diffusione – già dallo scorso giugno ha sospeso la rilevazione delle cosiddette copie digitali multiple: di fatto per la non perfetta visibilità su almeno una parte delle molte decine di migliaia di copie dichiarate dal Sole 24 Ore su questo canale.
Appare inevitabile anche l’attenzione di media e osservatori per l’impatto del “caso Sole” sul proprietario-editore Confindustria: a sua volta reduce dalla frattura interna registrata in primavera sulla designazione di Vincenzo Boccia a nuovo presidente. Esattamente come il “salotto” Rcs è stato a lungo un luogo dove alimentare o ricomporre conflitti interni al grande capitalismo italiano orbitante attorno alle grandi banche, la crisi del Sole 24 Ore è il terreno sul quale si scaricano inesorabilmente le tensioni maturate da anni in una confederazione nella quale i colossi statali (Eni, Enel, Poste, Finmeccanica) tendono a pesare sempre di più (a maggior ragione allorché la premiership di Matteo Renzi appare aggressiva anche su questa linea). L’industria privata (senza più gruppi come la Fiat) è d’altronde divisa: Boccia l’ha spuntata di pochi voti sull’emiliano Alberto Vacchi, sostenuto fra gli altri da Assolombarda.
Queste complessità, certamente, non agevolano il vertice Confindustria nell’affrontare un caso che, nella sua quintessenza, resta tuttavia aziendale. Il gruppo Sole si avvia a chiudere il settimo esercizio consecutivo in perdita: e il rosso cumulato (comprensivo dei 50 miliardi dichiarati alla fine del primo semestre 2016) si avvia a totalizzare i 300 milioni di mezzi freschi raccolti sul mercato in occasione della quotazione in Borsa del 2007. Il titolo – collocato a 5,75 euro – valeva ieri poco più di 30 centesimi.
E’ una crisi, quella del Sole, certamente non singola: di ieri è un’intervista estremamente preoccupata del presidente della Fieg Maurizio Costa sullo stato dell’intera editoria giornalistica italiana. E’ pur vero che nell’ultimo anno, tre grandi competitor nazionali del Sole si sono segnalati per mosse strategiche di primo livello: Espresso-Repubblica si è fuso con La Stampa (che a sua volta aveva già aggregato Il Secolo XIX) e Rcs è stata oggetto di un’Opas di successo da parte di Cairo Communication, una delle realtà più dinamiche ed evolute all’interno della media industry. Soprattutto Rcs presentava una situazione non dissimile da quella odierna del Sole: conti non sotto controllo, necessità di nuovi capitali (o quanto meno di tranquillità sul versante dei creditori bancari), proprietà divisa e priva di competenze editoriali; management debole e quindi incapace di avviare reali ristrutturazioni e studiare strategie nuove. Per tutti – Rcs, Repubblica, Sole, etc – sono due i fattori comuni di pressione esterna “epocale”: la recessione italiana e la trasformazione sempre più rapida e radicale dell’industria globale delle notizie, sconvolta dal digitale in tutte le sue dimensioni (tipologia di prodotti, canali di vendita, prezzi e composizione del fatturato, competenze professionali e loro costo, etc).
Ciascun caso aziendale presenta certamente singoli connotati critici. Il Gruppo 24 Ore ha sempre sofferto strutturalmente per la sua proprietà-governance. Il “padrone” del Sole – ma non un vero “azionista di controllo” – è il presidente pro-tempore di Confindustria. E né il presidente dell’editoriale né i consiglieri rischiano alcunché in proprio. Di più: tutti i concorrenti del gruppo (tutti quotati in Borsa) sono a vario titolo associati alla Confindustria, spesso entrando nelle stanze dei bottoni: nessuno di essi può avere un ragionevole interesse a che il Sole sia un polo realmente competitivo. Nella catena di controllo del gruppo è comunque oggettivamente difficile che i meccanismi abbiano quanto meno gli stessi tempi di poli media a proprietà concentrata, oppure di public company editioriali realmente esposte al giudizio degli investitori.
E’ naturale che un presidente neo-designato come Boccia confermi quasi ogni giorno da tre settimane che “Il Sole resterà di Confindustria” (lo ha fatto il 12 ottobre davanti al consiglio straordinario di Viale dell’Astronomia sul caso e lo farà prevedibilmente oggi al tradizionale appuntamento autunnale dei Giovani Industriali a Capri). E’ anche comprensibile che prospetti una ricapitalizzazione interna del Sole, da parte del “sistema Confindustria”: piano che però sembra più facile a dirsi che a farsi, fra grandi associazioni potenzialmente egemoni, piccole realtà con pochi mezzi e forse pochi interessi e le incertezze legate all’eventualità che dietro la sottoscrizione formale di un’associazione emergano poi interventi di singoli associati.
Non è sorprendente neppure, in questo quadro, che nella lista del nuovo cda del Sole, presentata nei giorni scorsi, compaiano tre banchieri: il presidente di BnpParibas Luigi Abete (ex presidente Confindustria e vicepresidente del Sole in attesa di conferma); il presidente dimissionario di Mps, Massimo Tononi (un passato di super-manager europeo di Goldman Sachs) e Patrizia Micucci, capo delle attività di Société Gènérale in Italia, già alle cronache finanziarie ai tempi dell’Opa di Lactalis su Parmalat. Senza dimenticare che il primo creditore del Sole è Intesa Sanpaolo: in cui lo storico plenipotenziario per le attività corporate è Gaetano Micciché, in predicato di diventare vicepresidente della nuova Rcs di Urbano Cairo.