Un ricercatore con la passione per la storia della scienza impegnata in un’osservazione del tutto ordinaria, una curiosa coincidenza e la voglia di saperne di più, una vecchia biblioteca in via di smantellamento, un falso da centocinquant’anni sotto gli occhi di tutti eppure mai notato, le resistenze del mondo accademico, fino all’arrivo delle prime conferme indipendenti di una scoperta che potrebbe rivoluzionare la parte più celebre e consolidata della filogenesi, quella relativa all’origine dei vertebrati. Non è la trama di un nuovo thriller di successo, ma quello che è realmente accaduto alla biologa genovese Margherita Raineri. Una storia esemplare, non solo per le sue implicazioni, ma anche e soprattutto per capire come funziona la scienza reale.
Intervista rilasciata a Genova il 16 maggio 2006.
Anzitutto spiegaci in cosa consiste la tua scoperta e perché è così importante.
L’anfiosso, nonostante sia piccolo e poco appariscente, è assurto alla celebrità perché dalla metà dell’Ottocento rappresenta, come si diceva un tempo, l’«anello di congiunzione » tra vertebrati e invertebrati. Adesso si dice in modo un po’ più moderno che è il più vicino antenato invertebrato dei vertebrati. In ogni modo, dovrebbe fornire degli indizi su come i vertebrati si sono evoluti.
L’importanza dei vertebrati è evidente di per sé, in quanto noi apparteniamo a questo phylum, quindi vedere l’origine dei vertebrati dovrebbe dirci qualcosa anche sulla nostra stessa origine. Perciò il raggruppamento che include l’anfiosso, i vertebrati e un altro gruppo, forse un po’ meno famoso, cioè quello dei tunicati, che comprendono le ascidie marine, è stato definito dei «cordati» perché dovrebbe essere caratterizzato da una struttura assile dorsale di sostegno, la cosiddetta corda dorsale; questa, nella massima parte dei vertebrati viene sostituita dalla colonna vertebrale che, insieme al sistema nervoso dorsale, dovrebbe essere un carattere diagnostico fondamentale per questo gruppo.
Ora, essendo questa una delle poche certezze della filogenesi, è risultato per me decisamente sconvolgente rendermi conto che in realtà i cordati in quanto tali non esistono, nel senso che sia l’anfiosso che i tunicati presentano sì un sostegno assile sotto il sistema nervoso, ma questo sostegno è localizzato sul lato ventrale del corpo, quindi non possono essere paragonati come struttura corporea ai vertebrati e anzi sono un bell’esempio di nuovo phylum finora non riconosciuto benché fosse sotto gli occhi di tutti.
Dunque l’anfiosso doveva essere il nostro antenato o comunque simile al nostro ipotetico antenato e invece viene a essere un animale completamente diverso, probabilmente molto primitivo, che potrebbe perfino essere molto più interessante di quanto si creda, nel senso che potrebbe fare luce su come si sono diversificati rapidamente i diversi gruppi nel Cambriano.
Come sei arrivata alla tua scoperta?
Dieci anni fa, nel 1996, per puro caso, come spesso avviene.
Stavo guardando al microscopio delle mie larve di gasteropodi marini e, a un certo punto, sono rimasta colpita dalla notevole somiglianza strutturale tra queste larve e una neurula di vertebrato, in particolare di anfibio: le strutture erano simili solo che al posto del sistema nervoso dell’anfibio questi molluschi hanno un abbozzo simile: la ghiandola del guscio, che poi darà il mantello.
Allora mi son venute in mente le teorie che a suo tempo avevo studiato sui gradienti morfogenetici che sostenevano, come confermato dalla genetica moderna, che esistono livelli correlati di differenziamento tra mesoderma, (foglietto intermedio), ed ectoderma: ai livelli massimi il gradiente mesodermico, cioè la corda dorsale, corrisponde al sistema nervoso dell’ectoderma, e poi muscolo, ghiandole o gangli e via discorrendo.
Come sostenevano quasi tutti gli autori all’inizio dell’Ottocento e come sostengono ancora oggi moltissimi colleghi, poiché noi abbiamo un sistema nervoso dorsale e animali come un anellide o la drosofila ce l’hanno ventrale, così come altre strutture, in qualche momento dovrebbe essersi verificato un rivolgimento sottosopra.
In quel momento ho pensato che in realtà non esiste alcun capovolgimento dorso-ventrale tra invertebrati e vertebrati, ma semplicemente le strutture si sono diversificate a seconda dei gradienti sull’asse dorso-ventrale. In questo modo ho cominciato a vedere le cose da un punto di vista più corretto, cioè a inquadrare il differenziamento di organi e tessuti in un sistema di coordinate stabili, cioè gli assi corporei, che in effetti si dimostrano tali, in quanto i geni che li specificano in realtà si sono conservati in tutti i diversi gruppi nel corso dell’evoluzione.
Per verificare questa intuizione io, che sono sempre stata abbastanza ignorante in zoologia, mi sono messa a controllare tutti i 43 phyla attualmente riconosciuti. E la mia ignoranza è stata un vantaggio, perché per la prima volta li ho visti senza avere preconcetti su come dovessero essere, non avendo in mente teorie particolari. E ho visto che in effetti l’orientamento delle diverse parti era conservato; l’unica eccezione erano proprio i cordati, nel senso che l’abbozzo di corda e sistema nervoso dei vertebrati risultava postero-dorsale, mentre negli altri membri del phylum risultava antero-ventrale.
Guardando meglio ho visto che l’orientamento dorsoventrale era invertito senza nessun motivo: nelle illustrazioni a un certo punto questi animali venivano ruotati.
Mi sono anche ricordata dei problemi sorti quando preparavo l’esame di embriologia e non riuscivo a capire come l’embrione di anfiosso fosse paragonabile a quello di anfibio perché non mi tornavano gli orientamenti.
Schemi di gastrule di anfiosso (a sinistra) e di anfibio (a destra) viste di lato, polo animale verso l’alto, per evidenziare la differenza tra le strutture
Ho cominciato a cercare nei vecchi libri, per fortuna ancora disponibili in Istituto, se qualcun altro avesse avuto questo sospetto.
E in effetti il sospetto c’era stato nel 1800, e da fonte molto più autorevole di quanto non sia io; chi aveva avanzato dubbi sull’orientamento in particolare dei tunicati era addirittura il fondatore dell’embriologia, cioè Karl Ernst von Baer.
[A destra: Karl Ernst von Baer (1792-1876)]
Incoraggiata da questa autorevole testimonianza, sono andata a fondo e ho controllato l’effettiva omologia di tutti gli organi che dovrebbero essere paragonati tra vertebrati e anfiosso e ho visto che in realtà – vedendo bene queste strutture, come sono fatte, come si formano e tutto il resto – non c’è alcun motivo per ritenere che ci siano omologie.
E tra l’altro ho scoperto che le stesse cose erano state dette anche da un altro grande esperto di embriologia dei vertebrati, Charles S. Minot (1852- 1914), ancora verso la fine dell’Ottocento.
Come è stato possibile un errore del genere, e soprattutto che nessuno se ne sia più accorto dopo queste prime critiche?
Come sempre giocano tanti fattori contingenti, storici. La tassonomia dell’anfiosso ha subito molte vicissitudini.
Quando questo animale è stato scoperto, nella prima metà dell’Ottocento, era stato classificato come un mollusco. Successivamente è stato classificato come pesce, tra il 1830 e il 1870. E proprio in questa finestra temporale sono usciti i primi lavori di embriologia che hanno portato a questa teoria dei cordati.
Era il momento in cui, nel 1859, Darwin ha pubblicato il suo lavoro sull’origine delle specie, e quindi trovare somiglianze, soprattutto embriologiche, tra vertebrati e invertebrati sarebbe stata una prova per l’evoluzione stessa, che all’epoca si riteneva ancora fosse possibile ad alto livello, cioè da un phylum all’altro; si riteneva quindi che potessero esistere i famosi «anelli di congiunzione», che in realtà oggi si pensa non possano esistere.
Nel periodo in cui si discutevano queste teorie, i lavori dell’embriologo russo Alexandr O. Kovalevski (1840-1901), che dimostravano effettivamente somiglianze tra lo sviluppo di alcuni invertebrati e quello dell’anfiosso e dei tunicati, furono immediatamente accolti dai sostenitori di Darwin come una prova della validità della sua teoria: se l’anfiosso, che si pensava fosse un pesce, si sviluppa come gli invertebrati, ecco trovato l’anello di congiunzione!
E lo sviluppo era ancor più simile per i tunicati, all’epoca ancora ritenuti una specie di mollusco: quindi se un mollusco si sviluppa come un invertebrato vuol dire che c’è un’affinità e perciò una discendenza evolutiva da un antenato comune, che venne chiamato «cordonia», un termine (da cui la denominazione di cordati) coniato dal celebre zoologo tedesco Ernst Haeckel, che era anche un filosofo monista ed ebbe un peso enorme in biologia con la formulazione della sua legge biogenetica fondamentale, secondo cui «l’ontogenesi ricapitola la filogenesi ».
[A sinistra: Ernst Haeckel (1834-1919)]
Haeckel diede una grandissima pubblicità a queste idee e, ancor più autorevolmente, l’idea dei cordati fu accettata da Darwin stesso nel libro del 1871 sull’origine dell’uomo, in cui fa esplicitamente menzione dei lavori di Kovalevski e della larva di ascidia che dovrebbe essere simile a un piccolo invertebrato, e dice che probabilmente l’origine dei vertebrati e quindi dell’uomo risale a questi animali ancestrali, i cordati, che per certi versi erano ancora simili a vermi.
Quindi nel dibattito pro o contro il tipo di evoluzione propugnato dai darwinisti quest’argomento diventò centrale e come tale è arrivato fino a oggi. Nel frattempo però alcune difficoltà sono state dimenticate.
La scienza in effetti procede per vie non sempre rettilinee: qualcuno aveva detto che i conti non tornavano, ma è rimasto ai margini, anche se i suoi lavori erano validi e nessuno li ha mai smentiti. Ma la corrente principale del pensiero ha preso una direzione e così è continuata. Un po’ è anche dipeso dal fatto che dopo la grande passione per l’evoluzione da parte degli embriologi è seguito un certo disincanto, che ha portato anche a una crisi del darwinismo nei primi decenni del Novecento: stanchi di teorie, gli embriologi si sono focalizzati sul capire come funziona lo sviluppo di gruppi determinati di animali, abbandonando la filogenesi.
Adesso filogenesi e sviluppo si sono ricongiunti nella cosiddetta «evo-devo», Evolutionary and developmental biology, cioè in quel tipo di approccio che cerca di trovare chiarimenti sull’evoluzione dallo sviluppo embrionale comparato. Ricorda un po’ la legge biogenetica fondamentale, solo che nessuno ormai crede più che gli stadi dello sviluppo corrispondano a forme adulte esistite nel corso dell’evoluzione, ma si ritiene che cambiamenti dello sviluppo possano essere stati importanti per l’evoluzione, quindi comparando i diversi tipi di sviluppo si cerca di capire come si sono diversificati i piani corporei.
Ora abbiamo perso questa cultura, abbiamo dimenticato le basi fondamentali, quelle morfologiche, sulle quali in realtà noi lavoriamo: la massima parte dei miei colleghi sa tantissimo di genetica molecolare, sa parecchio del gruppo animale su cui lavora, ma non sa nulla o quasi della storia che l’ha portato a questo punto.
Come è stata accolta questa tua scoperta?
Anzitutto va detto che all’inizio ho preferito scrivere un lavoro in italiano, perché prevedevo che avrei avuto difficoltà a pubblicare una cosa del genere, perché sconvolgeva 150 anni di biologia evolutiva e inoltre andava a «dar fastidio» a una quantità di progetti.
Poi mi sono decisa a scrivere un articolo in inglese per il circuito internazionale che, come avevo previsto, prima di uscire ha avuto grandissimi problemi, nel senso che è stato veramente arduo trovare una rivista che lo accettasse, anche perché il sistema prevede che il testo deve essere visto da due referee ignoti all’autore, i quali dovrebbero dare entrambi parere favorevole.
Confronto di sezioni schematiche della regione faringea di Saccoglossus, Enteropneusti (a sinistra) e di anfiosso (a destra). Qui l’anfiosso è rappresentato con la corda e il sistema nervoso orientati verso il basso per mettere in evidenza la somiglianza tra le strutture
Nel mio caso, dato che ovviamente il lavoro veniva mandato agli specialisti di cordati, era quasi impossibile ottenere l’unanimità: a volte trovavo un referee interessato, ma c’era sempre l’altro che era contrario, perché o non capiva o non gli interessava capire, e l’editor mi rimandava indietro il lavoro.
[A destra: Logo della Linnean Society]
Quindi ho impiegato anni, che però non sono stati sprecati, perché nel frattempo ho migliorato il lavoro e poi, soprattutto, uscivano continuamente dati che davano ragione alla mia teoria: quindi continuavo a incorporare materiale e alla fine la Linnean Society, dopo quasi due anni di attesa, l’ha pubblicato (Margherita Raineri, Are protochordates chordates?, Biological journal of the Linnean Society, 2006, 87, p. 261- 284.).
In realtà obiezioni di sostanza non me ne hanno mai fatte, perché non era possibile, ma il sistema funziona in modo tale che basta che un referee dica che non va bene, che è pieno di sciocchezze, che è inaccettabile e così via, e l’editor difficilmente si schiera contro di lui. L’editor della Linnean Society ha dimostrato un notevole coraggio, perché anche lì c’erano problemi, ma alla fine ha detto che se non otteneva un parere avrebbe deciso lui; ne ha avuti due molto favorevoli e la situazione si è sbloccata. Ma se fosse stato come altri, che evidentemente non desideravano entrare in controversia con i colleghi, il lavoro sarebbe forse ancora lì. Insomma, anche nel mondo della scienza ci sono le lobby, e lo sanno tutti benissimo, anche se non si dice.
Ora che l’articolo è finalmente uscito che reazioni ci sono state?
Sembrerebbe che un certo interesse ci sia stato, anche perché è stato inserito nello Universal Tree of Life, che è una sorta di mega-albero filogenetico sul web, i cui «rami» sono curati da specialisti dei relativi campi che ne aggiornano continuamente la bibliografia.
Quando ho visto che il mio articolo era stato inserito in quella dei cordati (dove in poco tempo è già stato scaricato da alcune centinaia di visitatori) ho scritto al curatore, John Lundberg, che è uno scienziato della National Academy of Natural Sciences di Philadelphia, dicendogli che ero un po’ stupita che avesse inserito proprio me, che dico che quel gruppo non esiste. Mi ha risposto nel giro di due minuti dicendomi: «Preferivi che non ti citassi del tutto?». Naturalmente gli ho detto che andava benissimo così. Scherzi a parte, mi fa piacere che un sistematico abbia accettato quest’ipotesi. Ma in effetti anche ai congressi a cui l’ho presentata le persone che hanno dimostrato più interesse e più approvazione sono stati i sistematici, proprio perché, per il loro lavoro, conoscono bene la struttura degli animali.
Prima hai parlato di dati che confermerebbero la tua tesi. Di che si tratta?
Sono sostanzialmente dati molecolari. Per esempio, tornando alla famosa regolazione degli assi corporei, queste strutture, ossia notocorda e sistema nervoso, che dovrebbero essere dorsali nell’anfiosso e nei tunicati, risultano controllate da geni che nei vertebrati controllano la parte ventrale.
Questi risultati sono stati accolti con stupore dagli stessi autori della scoperta, mentre per me erano esattamente quello che potevo aspettarmi.
E secondo te qual è invece il giusto albero filogenetico, sia per l’anfiosso che per il nostro vero antenato?
Per quanto riguarda l’anfiosso più o meno un’idea ce l’ho: dovrebbe essere un animale estremamente primitivo che dovrebbe stare alla base della divergenza tra i grossi gruppi moderni, e questo ci dovrebbe dire parecchio su questo Ur-bilaterio.
Dovrebbe quindi essere una specie di vermetto filtratore, privo di apparati boccali e con una strana asimmetria, perché in realtà gli sforzi di renderlo simile a un piccolo pesce hanno spesso fatto ignorare delle peculiarità di questo animale che non esistono in altri gruppi. Quindi studiandolo si potrebbe capire un po’ di più sulle prime diversificazioni dei moderni animali che sono avvenute circa 560 milioni di anni fa.
Quanto ai vertebrati, fare un’ipotesi positiva è molto problematico. Qui la palla passa ai paleontologi, i quali hanno i loro problemi perché lavorano su un materiale di difficile interpretazione. Comunque quello che ho trovato porterebbe buoni argomenti a favore di una teoria che io un tempo pensavo ridicola e cioè che i vertebrati possano avere un antenato comune con gli echinodermi, cioè quel gruppo che comprende stelle di mare, ricci di mare, eccetera.
Tutto questo ha anche implicazioni più generali sul modo di intendere la genetica e l’evoluzione.
Sì, certo. Considerato che il problema dell’evoluzione e di come essa avvenga è centrale in questa storia, perché è quello che in realtà ha determinato l’interpretazione di questi animali come parenti dei vertebrati, qui bisogna fare una disamina su cosa la teoria darwinista e neodarwinsita può in realtà dire sull’evoluzione.
In effetti, fin da subito, L’origine delle specie era stata criticata perché, fra l’altro, il libro non corrisponde al titolo: Darwin non parla di come nasca la specie, ma parla di come varia. E lo stesso vale per quello che riguarda i caratteri omologhi, cioè quelli che dovrebbero dimostrare un’affinità evolutiva tra gruppi; questa teoria, in versione genetica, dice al massimo come riconoscerli, come possono variare, ma non dice come si formino i caratteri.
Il problema è che questi caratteri possono essere indubitabilmente affini, appartenere a gruppi affini, ma utilizzare geni diversi per la loro formazione. Ci troviamo di nuovo in una situazione simile a quella dell’Ottocento. Qui mi sembra giusto quello che dicono gli storici della scienza.
Perché siamo arrivati ai cordati? Perché una teoria relativamente semplice, che funzionava bene, è emersa in un momento in cui le tecniche di ricerca si affinavano (quindi possibilità di far sezioni, colorazioni e così via) e in cui le Università andavano espandendosi, e quindi la gente aveva bisogno di lavorare e pubblicare. Perciò cosa si fa? C’è una tecnica a disposizione, una bella teoria per inquadrare rapidamente i risultati e in questo modo si produce una quantità di materiale che ha una certa plausibilità.
Adesso ci troviamo nella stessa situazione; abbiamo una teoria neodarwiniana che più o meno cerca ancora di funzionare, una enorme strumentazione che ci permette di sequenziare geni e localizzarli e in questo modo si produce una quantità esorbitante di lavori. Però i nodi fondamentali non sono stati risolti e quindi in questa «evo-devo» in realtà c’è una crescente insoddisfazione e un tentativo di formulare ipotesi alternative, che spieghino un po’ meglio l’origine dei piani corporei, e non solo come variano.
Tu hai qualche idea in proposito?
Sono d’accordo con un illustre collega svizzero, Denis Duboule dell’Università di Ginevra, che dice che lo sviluppo non spiega l’evoluzione, per il semplice motivo che lo sviluppo è un’acquisizione relativamente recente della vita, mentre l’evoluzione riguarda tutto il processo, dalle protocellule ai primi stati multicellulari e così via; quindi l’evoluzione evidentemente procede anche senza lo sviluppo così come lo intendiamo noi. Però in effetti è abbastanza ingenuo pensare che semplicemente i geni e le loro mutazioni siano alla base della variabilità che poi dovrebbe esser vagliata dalla selezione naturale in modo da produrre le forme viventi e il loro ordine, perché innanzitutto i geni da soli non fanno nulla, e non è assolutamente certo, anzi forse è improbabile che siano comparsi per primi.
Sembra invece più verosimile che, durante il passaggio dallo stato prebiotico a quello delle forme viventi, siano comparse prima macromolecole proteiche, poi abbozzi di circuiti metabolici che solo successivamente si siano stabilizzati, usando alla fine anche gli acidi nucleici. Cioè, gli acidi nucleici sono solo un componente della vita, ma non necessariamente quello fondamentale. Con una metafora, potrebbero essere paragonati alla nostra memoria a lungo termine, che sicuramente è importante, ma noi non ci identifichiamo con essa, anzi, anche se con una certa difficoltà, possiamo perfino cambiarla. E lo stesso fanno le cellule.
In realtà si è scoperto che le cellule hanno un’incredibile capacità di regolare e addirittura anche di modificare i propri stessi geni: secondo il loro funzionamento che, in definitiva, risente delle condizioni ambientali. Il fatto stesso che si sia scoperto con stupore che i geni sono relativamente pochi (quelli umani – che si pensava fossero 100.000, sono invece poco più di 30.000) e che sono fondamentalmente simili in tutti gli animali, dovrebbe far capire che di per sé non possono spiegare tutta questa variabilità.
Quello che spiega la variabilità, secondo me, sono le relazioni tra le diverse componenti: è un mondo fatto di relazioni che producono informazione, non un mondo dove da una parte c’è caso assoluto e dall’altra una selezione che vaglia i più adatti. Rispetto a questa idea c’è uno scontento crescente.
Il vero problema è che non siamo capaci di formulare un’ipotesi alternativa che sia veramente scientifica e che sia soggetta a sperimentazione, perché il problema è molto complesso.
Questa storia ha anche un’importante lezione per l’insegnamento delle scienze?
In effetti, l’affermarsi di questa teoria circa l’anfiosso e i cordati ha dato origine a (e a sua volta è stata rafforzata da) tutta un’iconografia nelle scuole. Perché è molto importante come si comunica la scienza sui libri, anche attraverso le immagini. E tutti i libri, da quelli delle scuole a quelli dell’Università, hanno sempre riportato un anfiosso idealizzato che assomiglia incredibilmente a un pesce, con il suo bravo schema vicino, anche alterando le sue vere caratteristiche: pochi sono i disegni, per esempio, che fanno vedere che l’ano dell’anfiosso non è sotto la coda come quello di un pesce, ma è asimmetrico e laterale.
Chiaramente chi studia su questi testi e vede costantemente questo tipo di informazione, che poi è molto semplice, ne rimane indubbiamente influenzato. Ma questa è una storia vecchia.
Schema idealizzato dell’anfiosso secondo Richard Owen
Già nell’Ottocento, infatti, per esempio all’inizio del celeberrimo testo di Richard Owen, che ha avuto un ruolo fondamentale per la nascita dell’anatomia comparata, si trova in una pagina l’archetipo del vertebrato e nella pagina a fianco un disegno molto idealizzato dell’anfiosso.
Qual è il messaggio? Che l’anfiosso è simile all’archetipo. E cos’è questo archetipo? Una sorta di «idea» di vertebrato, molto semplice, con tutti gli elementi che poi, complicandosi e modificandosi, danno origine ai vertebrati reali esistenti.
L’archetipo dei vertebrati secondo Richard Owen
Praticamente consiste in una colonna vertebrale senza una vera testa, con una ripetizione seriale di unità intercambiabili, che possono essere archi branchiali, costole e via dicendo: e chi più dell’anfiosso, che non ha una vera testa e ha tutta questa serie di ripetizioni simili con tantissime fessure branchiali, può richiamare quest’archetipo?
L’utilizzo di un archetipo, più o meno consapevole, in realtà è stato necessario per la teoria dei cordati proprio per l’incapacità del darwinismo di spiegare l’origine delle forme: siccome da qualche parte bisognava pur cominciare, ecco allora l’idea dell’archetipo, che veniva dalla scienza romantica, dalla filosofia di Oken e di Goethe.
Non trovi curiosa questa sinergia tra l’idealismo tedesco e una teoria scientifica come il darwinismo che sembrerebbe esserne la radicale negazione?
Infatti è quello che sto provando a scrivere adesso.
C’è un paradosso: che un approccio riduzionista e meccanicista porta a una visione essenzialistica delle forme, ma proprio perché a un certo punto non riesce più ad aggrapparsi da nessuna parte e quindi è costretto a basarsi su presupposti non dimostrati che devono servire come punto di partenza.
[A sinistra: Posizione generalmente mantenuta dalla larva di anfiosso rispetto al pelo dell’acqua]
In realtà ho l’impressione che questo modo di vedere spieghi poco: in apparenza spiega tutto, ma forse, proprio perché spiega tutto, in definitiva non spiega niente.
Per esempio, siamo oggi tutti d’accordo che nel neodarwinismo non disponiamo di alcuna teoria che ci spieghi come dal genotipo derivino i fenotipi. Senza di quella, in realtà il neodarwinismo non può funzionare: perché quando noi sappiamo come sono distribuite le frequenze geniche in una popolazione non sappiamo poi le forme che ne vengono fuori e il loro futuro destino.
Anche considerando tutte queste difficoltà in cui ti sei imbattuta, che normalmente non vengono considerate, ma che nella realtà esistono, sei soddisfatta di come la scienza viene oggi insegnata e, se no, cosa dovrebbe cambiare?
No, non sono assolutamente soddisfatta. Cosa dovrebbe cambiare?
[A destra: posizione dell’adulto di anfiosso quando sta immerso nei fondali fangosi]
Prima di tutto non si dovrebbe pretendere che la scienza sia necessariamente produttiva, nel senso che sforni sempre e comunque prodotti di ricerca fruibili a fini economici. E non si dovrebbe neanche spezzettare ogni insegnamento in una quantità di moduli e di ore che si incastrano in modo da non lasciare tempo né al docente né agli studenti di fare altro: l’estrema specializzazione accompagnata da un’enorme quantità di lavori pubblicati finisce per produrre ignoranza, alla fine, perché non si riesce più a avere una visione d’insieme; però per avere una visione d’insieme non si può neanche essere pressati in questa maniera.
E infine i docenti non dovrebbero essere oberati dalla necessità di reperire finanziamenti, perché in realtà ormai una buona metà del tempo di chi lavora in Università è dedicata alla burocrazia finalizzata a trovare fondi per la ricerca. E dato che questi fondi non vengono dati per nulla, bisogna far credere che il nostro programma di ricerca ha degli sbocchi applicativi.
Per esempio, anche per l’anfiosso è stato approvato un progetto internazionale da ben 15 milioni di dollari per sequenziare il suo genoma (i cui risultati stanno per uscire, e mi danno ragione, perché dimostrano che è molto lontano dai vertebrati!). Però come è stato approvato questo progetto? Dicendo che queste scoperte avrebbero permesso applicazioni sull’uomo, per il diabete, la cura del cancro, una quantità di cose assurde a cui nessuno crede, penso neanche quelli che le hanno scritte, però vengono dette perché se no i finanziamenti non vengono dati.
Quindi in questo sistema c’è anche qualcosa di profondamente contrario alla verità scientifica: uno scienziato dovrebbe dire le cose come stanno, invece così è costretto a diventare un imbonitore che cerca di dire le cose che possono piacere a chi può finanziare il suo lavoro.
Un’altra cosa che è stata fondamentale per la tua scoperta è l’aspetto storico.
Sì, come ho detto, per fortuna io ho potuto ancora vedere dei libri vecchi perché la vecchia biblioteca non era ancora stata smantellata. Adesso praticamente non c’è più, è finita in un sotterraneo e non so che fine faranno tutti quei libri, perché si ha l’idea che contengano dati vecchi. Ora, può anche essere che i dati siano vecchi, ma le teorie non sono vecchie, perché in realtà sono quelle che noi continuiamo a utilizzare; purtroppo continueremo a trascinarci dietro eventuali errori teorici non corretti.
Questo pericolo è avvertito dagli storici della scienza, che però al mondo sono pochi e in Italia, per quanto riguarda la biologia, penso siano praticamente inesistenti; per quel che ne so, quelli che ci sono si occupano sostanzialmente solo della fisica.
Quindi questo è un grandissimo pericolo, accentuato anche dall’informatizzazione delle riviste, perché ormai i nostri studenti e i nostri dottorandi non risalgono a oltre vent’anni fa: per loro la scienza inizia vent’anni fa.
Poi ci sono quelle teorie ormai diventate dogmi, di cui ben pochi sono in grado di ricostruire la storia e valutarne la validità.
Vuoi dire qualcosa sull’insegnamento nelle scuole, visto che fin qui hai parlato soprattutto dell’Università?
Su questo non so molto, tranne quello che sento dai miei figli, però so che la teoria dei cordati viene insegnata. E poi posso dire che viene insegnata una forma un po’ rozza di darwinismo; per esempio, io quando sento dire che discendiamo dalle scimmie sobbalzo, perché non è assolutamente vero da un punto di vista scientifico.
Anche in relazione alla recente polemica contro la Moratti, non si tratta di togliere la teoria dell’evoluzione dalle scuole o peggio ancora insegnare altre teorie tipo Intelligent Design, ma si tratta di dire chiaramente che non disponiamo di una soddisfacente teoria dell’evoluzione: c’è stata una teoria darwiniana, poi modificata in neodarwiniana e adesso continuiamo a cercarne una un pochettino più soddisfacente.
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A cura di Paolo Musso
(Filosofia della Scienza – Università dell’Insubria – Varese)
Margherita Raineri
Ricercatore confermato presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Genova
© Pubblicato sul n° 27 di Emmeciquadro