“L’appoggio convinto e unanime di Confindustria al sì al referendum sulla riforma costituzionale non è un supporto al governo Renzi, ma è la volontà di far fare al Paese un passo avanti e una evoluzione verso una fase più moderna, migliore, dove si decide meglio”: la domanda era insidiosa, la risposta di Emma Marcegaglia è chiara. L’imprenditrice mantovana, presidente dell’Eni, ex presidente della Confindustria e “grande elettrice” dell’attuale neopresidente Vincenzo Boccia, con toni lievi dà un’aggiustina non da poco al “posizionamento” renziano della confederazione degli industriali. Sì al referendum e sì alle riforme come da sempre, negli ultimi vent’anni, anzi trenta. Il che non significa sì sempre e comunque anche al Renzi premier, al suo governo e alla sua linea: non un passaggio alla neutralità, ma un signorile smarcamento dalla collocazione nella curva rossa degli ultrà in cui molti commentatori, nelle ultime settimane, avevano collocato la Confindustria bocciana.
Suggestiva la concomitanza delle critiche severe di Carlo Bonomi, presidente del gruppo tecnico fisco di Confindustria, che affida alle pagine della rivista fiscale del Sole 24 Ore la sua articolata posizione sulla legge di Bilancio del governo: “Siamo soddisfatti per le misure su produttività e investimenti. E fortemente critici per gli interventi sull’Iva: dai nuovi obblighi di comunicazione alla marcia indietro sul recupero in caso di procedure fallimentari per arrivare alle regole penalizzanti per le imprese sui depositi Iva”. Niente di strano: è normale che una “parte sociale” che negozia con il governo sia d’accordo su qualcosa e in disaccordo su qualcos’altro. Ma fa specie perché fino a poco tempo fa il mondo confindustriale era sembrato “totus tuus” verso il giovane leader di Rignano. Non è più così, o forse non lo è mai stato.
È il sogno permanente degli industriali – quello del demiurgo al governo, del premierato forte che tronchi gli indugi e decida senza meline troppo democratiche – che carsicamente riemerge e periodicamente conduce a qualche brusco risveglio. Appena un leader promette decisionismo, gli industriali fanno la ola. Dopo un po’, il leader si sottomette alle liturgie della politica – che impongono di mediare con tutti, e non solo di accordarsi con le imprese – e gli imprenditori storcono il naso.
Frutto sceltissimo di questo sogno perenne, e insieme suo figlio illegittimo, fu Silvio Berlusconi nel ‘94: perché non ottenne mai la benedizione dell’allora regnante sovrano degli imprenditori italiani, Gianni Agnelli, che non per autentico sinistrismo (figuriamoci…), ma per snobismo mai considerò il Cavaliere diversamente da un bauscia brianzola divertente ma del tutto “unfit to lead Italy”, come scrisse quell’Economist che oggi, non a caso, vede nel nipote dell’Avvocato John Elkann l’azionista di riferimento. E che in primavera scrisse parole (e inventò copertine) infuocate contro Trump.
Successivamente si cimentò con l’idea di capeggiare un “governo che governi” (come recita l’eterno incompiuto claim dei presidenzialisti) un personaggio che invece aveva la targa Fiat in regola, Luca di Montezemolo, con la sua creaturina “Italia futura” e un progetto in embrione di partito degli industriali mai partorito per manifesti limiti finanziari, nel senso che mentre Berlusconi – la pensi ciascuno come vuole dell’uomo – ha finanziato con decine e decine di milioni di euro la sua Forza Italia, sapendo che non li rivedrà mai più, Montezemolo è uno che, rispettabilmente, i milioni di euro di Berlusconi li farà in trecento vite, ma nell’attuale deve ancora metterne da parte un po’ per sé e per la progenie, e non può certo immolarsi sul serio alla causa comune.
Torniamo dunque al presidenzialista filo-imprenditori che imprenditore non è, Matteo Renzi. La Marcegaglia, interpellata sul tema a Mantova, durante un’intervista pubblica con il direttore di Panorama Giorgio Mulè, l’ha detto chiaramente: “Confindustria, sin dagli Anni Novanta ha appoggiato le riforme istituzionali, fin dal primo referendum per l’abolizione della quota proporzionale. Le abbiamo sempre appoggiate perché siamo convinti che servano leggi nuove per permetterci di avere un Paese meno costoso e più efficiente, che decida più velocemente, perché così deve essere un Paese più competitivo. La posizione di Confindustria è sempre stata non a favore di questo o quel governo, ma della competitività. La parte più interessante della riforma è secondo noi il cambiamento del titolo quinto perché oggi, così come siamo organizzati, molte delle decisioni sulle grandi infrastrutture energetiche sono prese a livello regionale, ognuno fa come gli pare, con legislazione concorrente e confusa. Penso peraltro che nella riforma Boschi ci siano altri aspetti che non vanno bene e mi auguro che vengano migliorati ma penso che nell’insieme sia comunque un passo avanti verso un Paese migliore. E non è vero che così, con questo consenso, la Confindustria si indebolisca. Se vincesse il no, potrebbe scaturirne una situazione politica più complessa. Personalmente penso che sia meglio vinca il sì, il processo di riforma andrebbe avanti; altrimenti non sarà l’apocalisse, ma probabilmente il segnale che verrebbe dato sarebbe negativo sul processo delle riforme in Italia e impensierirebbe gli investitori internazionali che non gradiscono la instabilità politica che ne deriverebbe”.