Un articolo che, partendo dalla vicenda del Movimento 5 Stelle, allarga il discorso sull’uso dei blog su Internet come modo di affronto delle questioni alternativo al normale dibattito politico, e anche scientifico. Sul web si costruisce una convinzione, ma anche una pretesa conoscenza, svincolata da ogni effettivo riscontro con la realtà. L’autore svolge una acuta analisi dei pericoli di questa «pseudoscienza», fra l’altro strumento di diffusione delle modalità più bieche delle mode culturali dominanti (ecologismo, e relativismo, per fare degli esempi); la risposta consiste nella ripresa, a tutti i livelli, di una capacità educativa.
Il clamoroso successo ottenuto alle ultime elezioni politiche dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo ha tra le altre cose messo in luce un fenomeno che ormai da tempo andava avanti nella quasi generale indifferenza e che invece minaccia di essere, in una prospettiva di medio-lungo termine, assai più duraturo (nonché pericoloso) che il fenomeno grillesco in sé.
Un programma costruito su Internet
Come avevo già scritto in un articolo apparso su ilsussidiario.net lo scorso 5 marzo (e a cui rinvio per chi fosse interessato all’approfondimento della parte propriamente politica), quello che più mi ha colpito in questa vicenda è il fatto che, con rarissime eccezioni, quasi tutti si siano affrettati a catalogare M5S come un puro movimento di protesta privo di qualsiasi programma, mancando completamente di coglierne il carattere di assoluta novità sullo scenario non soltanto italiano, bensì mondiale. Infatti non solo Grillo un programma ce l’ha, ma si tratta anche di un programma molto preciso e a suo modo coerente: e la sua coerenza è data dal fatto di aver messo al proprio centro Internet, non solo in quanto mezzo privilegiato per diffondere il «verbo», ma anche e soprattutto nel senso che sia i contenuti del programma che la loro legittimazione provengono dal web.
Tale programma consiste in una sorta di paradossale spiritualismo tecnocratico, vicino semmai, se proprio dovessimo trovargli a tutti i costi un termine di paragone, alla New Age e alla cosiddetta «ipotesi Gaia» di James Lovelock (si veda per esempio www.progettogaia.it, a cui Casaleggio aderisce esplicitamente), ma che tuttavia ha accenti e temi suoi propri, essendo nato e prosperato intorno ai blog di Internet e avendo al centro l’idea che sarà proprio la Rete a fornirci la chiave per risolvere tutti i nostri problemi.
Nessuno può propriamente rivendicare di averlo inventato, poiché si è formato spontaneamente nel corso degli anni durante miliardi di discussioni sulla Rete, per auto-organizzazione, potremmo dire, con terminologia ripresa dalla teoria dei sistemi dinamici complessi, di cui Internet certamente fa parte a buon diritto, nel bene e nel male. Grillo e Casaleggio l’hanno solo adattato al contesto italiano del momento, trasformandolo da generica «visione del mondo» condivisa da una comunità diffusa ma sfumata a preciso programma politico di un partito che si candida a governare il paese.
Internet: una «comunità scientifica» alternativa
E in effetti è proprio su questo secondo aspetto, cioè sulla legittimazione delle idee, prima ancora che sulle idee in se stesse, che vorrei soprattutto richiamare l’attenzione, giacché qui sta a mio avviso il pericolo maggiore.
Quel che voglio dire è solo che il vero problema non sono le singole idee o i singoli guru che le sostengono, bensì il fenomeno globale che sta producendo tanto le prime quanto i secondi. Si tratta infatti di un processo che va avanti da tempo, coinvolgendo sempre più persone e sempre più profondamente, al punto che ormai per molti non si tratta più solo di un modo di scambiare parole in libertà, bensì di un vero e proprio stile «alternativo» di pensiero e, in certa misura, anche di vita. In particolare, ci sono sempre più persone che, senza avere nessuna qualifica, o comunque senza averne una che li abiliti a ciò (la laurea, tanto spesso sbandierata, non è certo sufficiente), si presentano come «esperti» delle più svariate discipline scientifiche, al punto che non è esagerato ormai parlare della progressiva formazione di una vera e propria comunità «scientifica» alternativa, dove si mescolano in un groviglio inestricabile idee effettivamente sensate e magari innovative con altre scarsamente attendibili e altre ancora semplicemente folli, ma soprattutto dove non valgono le regole usuali del metodo scientifico galileiano.
Per gli «scienziati da blog», infatti, la fonte della credibilità, tanto delle idee quanto di chi le propone, è il consenso della Rete e non il giudizio degli altri esperti del settore, che normalmente sono chiamati a valutare, criticare e soprattutto controllare sperimentalmente le teorie di chiunque affermi di aver fatto una scoperta, secondo il cosiddetto metodo della peer review, che qui al contrario viene generalmente squalificato ricorrendo all’idea (o, più esattamente, alla nevrosi) che Internet ha forse più di qualsiasi altra contribuito a diffondere, ovvero il complottismo.
La scienza «ufficiale» viene infatti accusata (fin dall’aggettivo, che sempre le viene affiancato, sottintendendo che ne esisterebbe anche un’altra, appunto «non ufficiale», ma altrettanto legittima, se non di più) di essere in realtà nient’altro che un sistema di potere come tutti gli altri, che persegue i propri interessi e per niente affatto la ricerca della verità, né, tanto meno, quella di soluzioni efficaci ai nostri problemi; soluzioni che in realtà sarebbero già belle e pronte o comunque facilmente identificabili e se non vengono messe in pratica è solo, appunto, per un malefico complotto che coinvolge l’establishment scientifico-tecnologico, quello militare, quello finanziario e (ça va sans dire, soprattutto di questi tempi) quello politico.
Di conseguenza, la ricetta è semplice: basta che i «geni incompresi» del web prendano il potere e tutto miracolosamente andrà a posto. E infatti proprio questo è l’obiettivo, esplicitamente dichiarato, di Grillo e Casaleggio.
La scienza: il metodo galileiano
Naturalmente è vero che talvolta (e magari anche spesso) la comunità scientifica si comporta effettivamente così, ma ciò non significa che lo faccia sempre. E soprattutto, se uno guarda alla storia della scienza, si vede che le idee giuste alla lunga hanno sempre finito con l’affermarsi, anche se magari a fatica e dopo molti contrasti: e questo non perché gli scienziati possano vantare (come purtroppo invece spesso fanno, sbagliando) una non meglio identificata «superiorità morale», ma perché il metodo galileiano contiene in sé un’irresistibile tendenza all’autocorrezione, che fa sì che la verità, alla lunga, tenda sempre a emergere, nonostante e spesso addirittura contro i pregiudizi, impliciti o espliciti, degli stessi scienziati che lo applicano.
Il problema è che perché ciò accada si richiedono pazienza, fatica e sacrificio: tutte qualità oggi assai poco apprezzate e che proprio Internet, con la sua apparente facilità di ottenere «tutto e subito», sta contribuendo potentemente a render sempre più impopolari. Ma, soprattutto, il problema è che la verità non sempre corrisponde alle nostre aspettative, anche quando sono quelle della maggioranza: una caratteristica così palesemente reazionaria, intollerante e antidemocratica, che sempre meno persone sono oggi disposte ad accettarla.
La pseudoscienza da blog
Invece la pseudoscienza da blog, evitando programmaticamente il duro confronto con la realtà, corrisponde sempre, oserei dire per definizione, alle aspettative di chi la fa: niente di più naturale, dunque, che incontri un crescente successo. Naturalmente ciò si paga col fatto che poi non funziona: non propriamente un dettaglio, in effetti, ma in fondo che importa? Quel che conta è convincersi che la soluzione sia «là fuori», a portata di mano, anzi, di mouse, e soprattutto (va da sé) che «noi» siamo i buoni incompresi e «gli altri» i cattivoni responsabili di tutto ciò che va storto nel mondo. Così accade che sempre più persone si stiano gradualmente abituando a vedere e giudicare le questioni scientifiche in un modo che non ha alcuna attinenza con la realtà.
Quante esattamente? È difficile dirlo, ma proviamo. Anzitutto consideriamo che il movimento di Grillo alla Camera, dove vota il maggior numero di persone (46.905.154), è arrivato ad ottenere 8.689.458 voti. È vero che nel suo successo hanno giocato diversi fattori, primi fra tutti ovviamente la crisi e la rabbia contro i partiti tradizionali, e poi la presenza di un capo carismatico con il physique du rôle giusto per la situazione.
Tuttavia, anche assumendo che la grande maggioranza, diciamo addirittura l’80%, l’abbia votato per pura protesta e/o disperazione, solo in base ai «Vaffa!» e agli «Arrendetevi!» e al limite alle idee in materia di fisco, senza nemmeno guardare il resto del programma (cosa secondo me niente affatto scontata e tutta da dimostrare), si giunge comunque alla stupefacente conclusione che attualmente in Italia ci sono non meno di due milioni di persone che credono davvero alle sue strampalate idee – se non del tutto, almeno quanto basta per augurarsi, o quantomeno per non temere, che il nostro paese sia governato in base ad esse.
Ma basta riflettere un istante per capire che questa in realtà è ancora una stima per difetto, e di gran lunga: non è infatti plausibile che tutti gli adepti della scienza da blog abbiano votato per Grillo. Quindi è logico supporre che anche tra gli elettori degli altri partiti, in particolare tra quelli più estremisti, vi siano molti che condividono almeno in parte questa mentalità, senza che tuttavia, per le ragioni più varie, ciò sia parso loro sufficiente a cambiare il proprio orientamento in favore di M5S. E lo stesso vale per gli astenuti, che sono il vero «primo partito» d’Italia (11.633.613 alla Camera): anzi, probabilmente vale in misura ancor maggiore, giacché almeno una parte di essi è costituita non da elettori delusi dei partiti tradizionali, ma da individui che sono da sempre «antisistema».
Per quanto difficile sia quantificare esattamente tali stime, considerando che gli elettori di Grillo sono circa un quarto dei votanti e meno di un quinto del totale, non mi sembra esagerato ipotizzare che tra i cittadini italiani maggiorenni i simpatizzanti della pseudoscienza internettiana siano almeno il doppio, ovvero circa 4 milioni, cioè quasi uno su dieci: una cifra impressionante, soprattutto se si considera che da noi Internet è diventato un fenomeno di massa relativamente tardi, diciamo da non più di una decina d’anni. E poiché la popolazione italiana è meno di un centesimo di quella mondiale, anche considerando che il fenomeno è distribuito in modo molto diseguale, essendo concentrato soprattutto nei paesi occidentali, ciò implica che su scala planetaria la dimensione della nascente comunità pseudoscientifica sia almeno dell’ordine delle decine di milioni di aficionados, se non addirittura delle centinaia.
E si tratta di un numero in costante crescita.
Dicendo questo non sto facendo nessuna rivelazione: tale network infatti non ha nulla di segreto, anzi, per sua natura cerca esso per primo la massima visibilità, tant’è vero che io stesso ne ho scoperto per la prima volta l’esistenza non svolgendo chissà quali indagini, ma semplicemente accorgendomi che cercando articoli scientifici in Internet mi imbattevo sempre più spesso in siti pseudoscientifici.
Il problema è che, almeno fino a oggi, tutto ciò è stato colpevolmente sottovalutato, probabilmente perché si pensava che si trattasse perlopiù di persone che occupano ruoli abbastanza marginali e dunque sostanzialmente ininfluenti, il che almeno in parte è vero.
Tuttavia in democrazia, dove la pubblica opinione ha un ruolo determinante nell’orientare le scelte politiche, un fenomeno che coinvolge un numero di persone così grande non può mai, alla lunga, essere privo di incidenza sociale: e Grillo l’ha dimostrato. Magari tutto questo nel tempo non reggerà, ma per intanto dobbiamo attenerci ai fatti: e i fatti finora ci dicono che non esagera Massimo Introvigne quando parla al proposito di qualcosa di simile a una setta tipo Scientology.
Le insidie della pseudoscienza
Attenzione però, sono da evitare due equivoci. Anzitutto, questa è per così dire una setta diffusa, la cui forza di penetrazione è incomparabilmente più grande rispetto a una setta di tipo tradizionale, in quanto l’adesione è alla portata di chiunque, non solo per l’estrema facilità di accesso, ma anche e soprattutto perché l’appartenenza a essa è sostanzialmente gratuita (laddove le sette sono in genere costosissime, giacché il loro vero scopo è spennare gli adepti) e non mediata da alcun guru. Già, perché (e questo è il secondo punto) questa gente non crede in Grillo: crede nella Rete.
È vero che senza il carisma personale del comico genovese non sarebbe mai nato alcun movimento politico – o almeno non di queste dimensioni; ma anche nel momento in cui lui dovesse uscire di scena (il che prima o poi inevitabilmente accadrà, come in tutte le cose umane), se non si invertirà la tendenza questa mentalità continuerà ugualmente a diffondersi, coinvolgendo un numero sempre crescente di persone, che saranno in ogni momento pronte a dar vita a un altro movimento simile non appena si daranno nuovamente le condizioni giuste.
Ma soprattutto – e questo è il punto più importante – anche in assenza di una forza politica organizzata, la semplice esistenza di così tante persone che ragionano in questo modo è destinata a causare problemi crescenti (in misura direttamente proporzionale alla crescita del loro numero) alla nostra civiltà, in cui scienza e tecnologia sono fatalmente destinate a ricoprire un ruolo sempre più vitale, per cui gestirle male rischia di portare a conseguenze gravissime.
Questo lo abbiamo già visto chiaramente (anche se non chiaramente capito) per esempio in occasione dei recenti referendum sull’acqua e sul nucleare, in cui l’influenza di tale mentalità è stata tanto decisiva quanto catastrofica, dato che, anche se nessuno lo dice, una delle più gravi palle al piede che la nostra economia si trascina da anni (e che dopo l’esito referendario dovrà trascinarsi per chissà quanti altri) è l’assurdo costo dell’energia, superiore di ben il 50% rispetto agli altri paesi civili, che invece il nucleare lo usano tutti, senza alcuna eccezione; mentre sull’acqua tutto quel che si è ottenuto è stato di lasciare le cose come stavano, cioè messe male. Ma ci sono molti altri modi, più indiretti ma non meno efficaci, in cui un gruppo agguerrito e bene organizzato può essere determinante, anche senza bisogno di rappresentare la maggioranza dei cittadini, nell’orientare in un senso o nell’altro le scelte delle democrazie, soprattutto se di salute cagionevole come quelle attuali.
Un esempio tanto palese quanto inquietante di ciò è stata la folle storia che ha condotto alla condanna (per fortuna ancora solo in primo grado) degli esperti della Protezione Civile accusati di non aver saputo prevedere il terremoto dell’Aquila: è stato infatti abbastanza trasparente l’intento del pubblico ministero e dei giudici di compiacere in tal modo un’opinione pubblica che in gran parte aveva prestato fede alle strampalate teorie pseudoscientifiche di Giampaolo Giuliani, nonostante fossero state prontamente rigettate da tutta la comunità scientifica mondiale.
Chiaramente in tutte queste disgraziate vicende anche i media tradizionali hanno recitato la loro (brutta) parte. Ma, se è probabilmente eccessivo prendere alla lettera il famoso detto di Marshall McLuhan per cui «il medium è il messaggio», in esso vi è nondimeno una parte di verità. Ovviamente non si tratta qui di demonizzare Internet, ma solo di prendere coscienza che, come qualsiasi altra forma di comunicazione, anch’esso ha pregi e difetti suoi propri, che non dipendono dall’uso che se ne fa, ma solo da come esso è, cioè dalla sue caratteristiche intrinseche.
Così, per esempio, è difficile che un giornale o una televisione, per quanto faziosi, trattando un problema tecnico e/o scientifico possano evitare del tutto un contraddittorio con veri esperti del settore per far parlare solo persone che dicano ciò che la proprietà o il conduttore desiderano, perché ciò contraddirebbe in maniera troppo smaccata la loro natura, essenzialmente pubblica.
Una tale completa autoreferenzialità è consentita solo su Internet, dove ciascuno è sovrano in casa propria e a qualsiasi critica potrà sempre replicare: «Ma se il mio blog non ti piace, perché lo guardi?». Ma oltre a ciò, nonché alla già rilevata estrema facilità di accesso, vi sono almeno altre due caratteristiche per cui Internet tende per sua natura a facilitare la diffusione della pseudoscienza.
La prima è la sua «democraticità» (in realtà solo presunta: vedi oltre), uno dei pochissimi valori quasi universalmente condivisi nella società occidentale di oggi, il che lo rende particolarmente «autorevole».
La seconda è il suo elevato contenuto tecnologico, per cui chi dimostra di saperlo usare bene si accredita per ciò stesso, almeno agli occhi di molti, come un potenziale «scienziato», benché in effetti tra le due cose non vi sia alcun nesso evidente: molto significativo in proposito è il tono ammirato con cui prima Gian Antonio Stella sul Corriere e poi l’ambasciatore americano David Thorne in una conferenza al Liceo Visconti di Roma (non esattamente degli sprovveduti) hanno parlato dei giovani militanti di M5S, capaci di riparare un’antenna satellitare con le proprie mani o di ricevere in tempo reale l’ultimo tweet del capo dello staff di Obama, benché ciò evidentemente non significhi nulla circa l’affidabilità delle loro idee, ma tant’è…
L’unica risposta efficace: tornare a educare
Completata l’analisi, bisognerebbe ora, come d’uso, passare ai rimedi: e quivi cominciano le dolenti note. Infatti per questo problema non esistono purtroppo ricette facili né, soprattutto, veloci, come sarebbe invece auspicabile: porre dei limiti alla circolazione della informazioni via Internet è impensabile, per ragioni pratiche prima ancora che di principio, e altre possibili soluzioni imposte «dall’alto» non se ne vedono.
L’unica risposta efficace sembra dunque poter venire «dal basso», cioè a livello culturale. La causa ultima del degrado odierno non è infatti Internet, così come prima non era la televisione, con buona pace di Bobbio, Popper, Sartori e tutti gli altri intellettuali che le hanno regolarmente quanto vanamente tuonato contro (perlopiù, naturalmente, in televisione), bensì le teste vuote di troppi loro utenti.
È chiaro che, siccome natura abhorret vacuum, quando un vuoto si forma, viene inevitabilmente riempito con la prima cosa che si trova a portata di mano, sia essa il Grande Fratello di Canale 5 o un blog pseudoscientifico di Internet. Ma il vero problema è a monte: sta nel fare in modo che le teste non siano più vuote, ma piene. Piene, beninteso, di vera cultura e non di semplice indottrinamento, che alla prima obiezione un po’ seria è destinato a squagliarsi come neve al sole, lasciando il posto al vuoto pneumatico più spinto. Insomma, per dirla in una parola, l’unica risposta efficace è tornare a educare, sia in famiglia che a scuola.
L’ostacolo delle correnti culturali «alla moda»
Tuttavia tale compito, già non semplice di suo, è reso ancor più complicato, soprattutto sul secondo versante, dal fatto che proprio all’interno della nostra cultura attuale vi sono almeno cinque differenti correnti di pensiero che spingono potentemente in senso opposto, benché in gran parte involontariamente, con una vera e propria eterogenesi dei fini, dato che i loro esponenti si presentano perlopiù come paladini della scienza.
La prima di esse è ovviamente l’ecologismo, che, pur godendo anche del sostegno o quantomeno della simpatia di molti scienziati, tende spesso a mettere in cattiva luce la scienza e la tecnologia in quanto tali e non solo per l’uso eventualmente sbagliato che se ne fa.
La seconda è il relativismo epistemologico, che rappresenta ormai da decenni la corrente di gran lunga dominante della filosofia della scienza contemporanea e che sta alla base anche del moderno relativismo culturale: come stupirsi infatti che certe idee girino oggi sul web se fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso celebrità mondiali come Popper, Quine, Wittgenstein, Kuhn, Feyerabend e compagnia filosofante hanno sostenuto con la massima serietà che credere all’esistenza degli atomi piuttosto che a quella degli dei dell’Olimpo è essenzialmente una questione di convenzioni, che l’astronomia non è realmente superiore all’astrologia e che ciò che in un certo momento storico viene considerato «conoscenza» dipende dagli interessi di chi detiene il potere all’interno della comunità scientifica?
La terza corrente, meno scontata ma ancor facile da individuare, è lo scientismo, che, identificando falsamente la scienza con un gretto materialismo, induce moltissime persone come minimo a diffidarne, quando non addirittura a rifugiarsi nell’irrazionalismo e nella superstizione – o, appunto, nella pseudoscienza da web.
La quarta corrente è invece molto più subdola e quindi ancor più insidiosa: essa consiste in un’indebita enfatizzazione del rapporto tra scienza e democrazia, che a volte sfiora addirittura l’identificazione tra le due, benché in effetti il metodo della scienza non sia affatto democratico, dato che le decisioni non si prendono a maggioranza, bensì in base ai risultati sperimentali, che possono anche (e storicamente è accaduto spesso) dar ragione a uno solo contro l’opinione di tutti.
È chiaro che tale retorica, per quanto immotivata, non può che favorire, nella testa di molti, l’accettazione della metodologia «democratica» della pseudoscienza da blog, benché a rigore nemmeno il metodo di Internet sia democratico: la democrazia infatti è libertà più regole, mentre la libertà senza regole, tipica appunto del web, si chiama più propriamente anarchia.
Si badi che non è solo una differenza di forma, ma di sostanza: mentre la democrazia tende a far prevalere le maggioranze silenziose, l’anarchia tende invece a far prevalere le minoranze rumorose, come infatti succede regolarmente in Internet, dove il numero di pagine dedicate a un certo argomento non dipende solo dal suo interesse intrinseco, ma anche da quanto tempo i suoi fan sono disposti a perdere per propagandarlo.
Un ulteriore aspetto perverso di tale fenomeno è che mediamente le persone che passano più tempo sul web (a parte chi lo usa per ragioni professionali, beninteso) non sono le più serie, le quali in genere hanno, per l’appunto, cose più serie da fare: quindi la pseudo-democrazia internettiana tende per sua natura a dare più peso alle idee sballate che a quelle affidabili, come dimostra il fatto che, subito dopo quelli erotici (alla cui diffusione contribuisce peraltro anche l’aspetto commerciale), i siti in assoluto più numerosi sono quelli ufologici.
Infine, la quinta e ultima corrente è quella che sta spingendo in favore di una sempre più spinta internettizzazione della scuola. Ho detto «internettizzazione» e non, come in genere si usa, semplice «informatizzazione» perché di questo si tratta. Infatti la vera «idea forte» di questa impostazione non è semplicemente utilizzare i computer in classe, ma incentrare sempre più la didattica sulle risorse reperibili in Rete, cosa che può certo esser fatta con senso critico (e in tal caso rappresenta il miglior antidoto alla subcultura da blog), ma anche no, con atteggiamenti che a volte sfiorano la vera e propria delega della funzione didattica al web.
Ora, poiché tale atteggiamento è senza dubbio di gran lunga più comodo, è chiaro che ogni suggerimento ad andare in tale direzione troverà sempre molte orecchie disposte ad ascoltare con benevola quanto interessata attenzione: dovrebbe quindi essere cura di ogni riformatore responsabile evitare qualsiasi indicazione che possa essere intesa in tal senso e anzi moltiplicare le raccomandazioni e le cautele perché si vada nella direzione esattamente opposta, ma spesso così non è.
Non sarà forse inutile ricordare, a questo proposito, che uno dei punti qualificanti del programma di Grillo e Casaleggio è proprio l’integrale internettizzazione della scuola e dell’università, fino alla completa eliminazione dei libri di testo cartacei (il che, tra parentesi, secondo loro dovrebbe renderli gratuiti, benché non risulti che i software per computer lo siano, a dispetto della loro natura digitale).
Proprio quest’ultimo mi pare il punto più delicato: contano anche gli altri, beninteso, ma se si perde questa battaglia sarà persa anche tutta la guerra, perché su questo tipo di cose la funzione della scuola è determinante e non può essere sostituita da nient’altro, neanche dalle famiglie, che oltretutto sulle questioni scientifiche spesso non avrebbero neanche le competenze necessarie, per non parlare del tempo.
Le mode culturali in Italia
Una conferma di quanto ho fin qui detto viene dal fatto che queste cinque correnti, per ragioni che andrò subito a spiegare, sono particolarmente forti proprio in Italia. Anzitutto, infatti, noi abbiamo da sempre il peggior ecologismo di tutto il mondo civile, che agisce perlopiù in base a tesi ideologiche precostituite, screditando sistematicamente il parere degli esperti: basti pensare alla vergognosa opera di disinformazione che ci ha portati, unici fra tutti i paesi industriali, a rinunciare al nucleare fin dal 1988, ben prima dell’avvento di Internet, o al fatto che siamo gli unici al mondo ad avere i No-TAV (mentre per esempio in Francia gli ecologisti sono a favore dell’alta velocità, in base all’ovvia considerazione che il trasporto su rotaia inquina molto meno di quello su gomma: eppure si tratta della stessa galleria che secondo i nostri è destinata a causare catastrofi inenarrabili).
In secondo luogo, per quanto riguarda il relativismo epistemologico, se è vero che la situazione non è probabilmente peggiore che altrove (anche perché sarebbe difficile, essendo tragica un po’ ovunque), tuttavia da noi esso si è inserito in un contesto in cui una certa svalutazione della scienza era già avvenuta, a opera della filosofia idealista, che ha dominato sia l’epoca fascista che quella postfascista a opera dei due massimi pensatori italiani del tempo, rispettivamente Giovanni Gentile e Benedetto Croce, divisi e anzi opposti su tutto, ma uniti, allineati e coperti (purtroppo) proprio e solo su questo.
Quanto allo scientismo, da un punto di vista puramente numerico probabilmente da noi gli scienziati che vi si riconoscono sono anche meno della media, ma in compenso godono di una capacità di incidenza culturale più unica che rara: non credo infatti esista nessun altro paese al mondo in cui la divulgazione scientifica, a tutti i livelli, dalle televisioni ai quotidiani, dalle riviste all’editoria, fino ai vari Festival della Scienza, sia così completamente in mano loro.
Anche la retorica democraticista gode in Italia di una diffusione anomala, principalmente per il fatto di essere diventata una delle poche bandiere di una sinistra che ha perso ormai pressoché tutti i suoi tradizionali punti di riferimento senza essere ancora riuscita a identificarne di nuovi, ma in compenso dispone ancora di un largo consenso e, soprattutto, di un vasto, articolato e tuttora efficientissimo sistema di potere.
Infine, l’internettizzazione della scuola, pur essendo stata finora meno spinta che in altri paesi, viene tuttavia perseguita non solo con una determinazione degna di miglior causa, ma soprattutto con quel tipico atteggiamento che assumiamo ogni volta che «volemo fa’ li americani», che ci porta regolarmente a imitare il peggio di quel modello, tralasciandone non meno regolarmente il meglio.
Date tali premesse, e pur considerando che, come già detto prima, vi hanno concorso anche altre cause, non deve stupire più di tanto che proprio da noi sia nato il primo vero «partito di Internet» della storia.
Se non deve stupire, deve però preoccupare. E molto. Perché Grillo stesso è soltanto un segno. È la punta di un iceberg che già oggi è molto più vasto e influente di lui e che nel tempo, se non si reagirà prontamente, è solo destinato a crescere: fino a che punto e con quali conseguenze non lo sappiamo, ma quel che è certo è che sarebbe meglio per tutti non scoprirlo mai.
Paolo Musso
(Docente di Filosofia della Scienza presso l’Università dell’Insubria di Varese e Visiting Professor di Epistemologia presso la Universidad Católica Sedes Sapientiae di Lima, Perù)
© Pubblicato sul n° 49 di Emmeciquadro