Di cosa parliamo quando parliamo di insegnanti? Parliamo tutti della stessa cosa? E cosa dicono di se stessi i docenti quanto raccontano la scuola?
Rispondere a queste domande guardando la storia è smascherare ambiguità, connivenze, irreggimentazioni di ieri e di oggi nella scuola italiana. È riaffermare il bisogno di identità e di reale autonomia.
Quando si parla degli insegnanti e della loro evoluzione nella storia della scuola italiana si è costretti a fare i conti con un termine carico di ambiguità. Le parole sulla centralità del maestro si sprecano. È uno di quegli argomenti su cui tutti sono d’accordo. Come sempre accade quando su un determinato argomento il consenso è pressoché universale è necessario esercitare un sovrappiù di acume critico.
Due sono gli aspetti che vanno messi al centro della nostra attenzione.
Innanzitutto di cosa parliamo quando parliamo di insegnanti? Parliamo tutti della stessa cosa? Io non ne sono convinto. Dietro la parola insegnante si celano una serie di progetti e, cosa più importante, di idee generali sulla scuola che non possono stare insieme e che, costrette dentro la camicia di forza di un discorso pubblico generalmente molto disattento e opaco, finiscono per generare inevitabilmente molta confusione e molti fraintendimenti. La seconda questione che voglio segnalare è il modo con il quale in questi anni la scuola si è autorappresentata. In questo caso in gioco non sono più le definizioni più o meno normative che forze esterne al mondo della scuola danno degli insegnanti. Rilevante è, semmai, lo stereotipo che la scuola produce di se stessa. Non è questione da poco. Pensate soltanto al romanzo della scuola prodotto dagli insegnanti, all’ importanza che ha avuto in tutti questi anni nel produrre una immagine diffusa della scuola, da Starnone a Paola Mastrocola. C’è una profondità culturale, un’incunearsi di queste scritture dentro la storia dell’ Italia unita, che ne fa un genere non solo letterario ma del discorso civile italiano.
Cosa ha in comune la scuola elementare con un liceo
Finora non ho fatto cenno alla distinzione tra scuola elementare e scuola secondaria e anzi, le cose dette sulla versione recente del nostro “romanzo dei maestri” fanno allusione soprattutto all’ istruzione secondaria di secondo grado. Naturalmente è, anche in questo caso, una confusione che non regge.
Scuola elementare e scuola superiore stanno dentro ambiti problematici talmente differenti che non si possono trattare gli insegnanti dell’ uno e dell’ altro livello come se fossero una cosa sola. Eppure vorrei mantenere questa ambiguità per farvi riflette su un aspetto, oggi trascurato, della questione scolastica italiana: la sua radicale sussunzione all’interno di uno discorso specialistico che ha finito per smarrire quello che al contrario fin dall’ inizio del Novecento è stato il terreno di una rifondazione comune. La scuola novecentesca non è stata affatto la continuazione della vecchia istruzione del secolo XIX e questo è valso tanto per la scuola secondaria, il liceo-ginnasio, che per la scuola elementare. Il nuovo secolo si inaugura all’ insegna di un progetto politico che spezza definitivamente il vecchio dualismo scolastico che aveva concepito, ancora all’ interno del modello della nazionalizzazione ottocentesca, scuola elementare e scuola umanistica come i circuiti separati del diritto diseguale all’ istruzione di due tipi diversi di umanità, i figli del popolo appunto e i pochi, che non per forza erano figli delle elite, che potevano accedere all’ insegnamento superiore. Vale la pena ricordare, a questo proposito, che nella legge Casati, vale a dire nel codice fondamentale della nostra istruzione nazionale, la scuola elementare non era affatto la scuola della totalità dei cittadini, ma faceva parte, insieme all’ istruzione tecnica, del ramo della scuola popolare e che a questa filiera della scolarizzazione delle classi subalterne si opponeva in blocco l’ istruzione classica.
Le elementari tutte comunali, i licei tutti regi. Perché?
Questa netta distinzione dei percorsi scolastici era ribadita sul piano istituzionale attraverso la separazione tra responsabilità centrali-nazionali e responsabilità locali. La scuola dei poveri, questo di fatto era l’istruzione elementare all’interno del modello dualistico dell’ istruzione, era affidata alle cure incerte e diseguali delle amministrazioni locali. Allo Stato, invece, spettava la cura e la tutela dei più nobili percorsi delle elite. Mentre le scuole elementari erano tutte comunali, i licei erano tutti regi.
Questo modello cambia all’ inizio del Novecento, sul terreno della politica scolastica con la statalizzazione dell’ istruzione elementare, tra il 1910 e il 1911, e sul terreno della teoria dell’ educazione con Giovanni Gentile e con Giuseppe Lombardo Radice.
Nel quadro della filosofia idealistica e della riforma gentiliana della scuola, l’ istruzione elementare sta insieme al liceo classico come l’ unica scuola di formazione dello spirito, rivolta cioè all’individuo come uomo integrale e si oppone non più alla scuola classica ma al complesso dell’ istruzione specialistica che non forma l’uomo ma prepara il professionista.
È un passaggio molto importante che segna l’ingresso della scuola italiana in una nuova epoca e che oggi appare del tutto oscurato da una concezione burocratica dell’ istruzione, che ha anch’essa una storia ma che rappresenta solo uno degli esiti possibili della vicenda scolastica nei paese occidentali.
Valorizzare l’esercizio del magistero
Questa comune radice umanistica della scuola elementare e dell’ istruzione secondaria superiore va recuperata se si vuole fare un discorso sugli insegnanti che non sia la mera riproduzione di ricette tecnocratiche che vogliono gli insegnanti come dei professionisti ma che di fatto non sono altro che un modo per asservire la loro funzione ad una rinnovata disciplina burocratica che di fatto svuota di senso l’esercizio del magistero.
Se ci pensate bene l’idea che il maestro come il professore di liceo si rivolge all’ umanità del suo allievo, nella sua interezza e non in riferimento alle sue facoltà specializzate, serviva innanzitutto a costruire attorno ai maestri una fascia protettiva al fine di preservarne l’autonomia. L’autorappresentazione denigratoria a cui ci abituato il romanzo recente dei maestri ci dice innanzitutto che i maestri sono rimasti privi di difese. Denudati di un modello culturale alto che ne rivesta e ne protegga l’esercizio del magistero, gli insegnanti sono diventati la preda di tutte le ricette e di una nuova irreggimentazione. Già Einaudi, certo, deplorava la burocratizzazione dei maestri e ne invocava la destatalizzazione. Oggi abbiamo accumulato una esperienza sufficiente per sapere che i poteri locali non forniscono alcuna garanzia al riguardo, anzi. La proliferazione delle burocrazie è avvenuta alla periferia più che al centro in questi ultimi vent’anni. Non è dunque il padrone che fa la differenza. Quello che manca oggi ai maestri è un linguaggio culturale nel quale esprimere la propria identità e la propria reale autonomia.