Fa salire un bambino down sulla sua jeep, abbraccia una ragazza palestinese e una israeliana, saluta la modella argentina Valeria Mazza. La vita in tutta la sua diversità. Francesco ha appena finito di parlare alla solita piazza stracolma di fedeli e interpreta le sue parole con la naturalezza che solo uno convinto di quello che afferma può usare. Ha concluso la sua catechesi ricordando il “Vangelo della Vita”, invitando tutti a “difendere la vita in tutte le sue dimensioni e in tutte le sue fasi” ed eccolo che riempie di concretezza l’appello lanciato dal sagrato della Basilica. Perché un uomo innamorato di Cristo abbraccia la benedetta imperfezione e la bellezza statuaria, la conflittualità radicale e l’unità, la precarità di un’esistenza in fuga e la sicurezza di belle comunità parrocchiali.
“Vita” per il Papa significa non solo principio e fine, ma anche tutto ciò che sta in mezzo. Chi non riesce a comprendere questo, difficilmente amerà quel suo modo di fare spiccio, quasi disinteressato quando si tratta di affermare valori che non abbiano un po’ di carne appiccicata addosso, e la passione strabordante quando ha a che fare con muscoli e ossa, sangue e lacrime, volti e mani. Il cristianesimo di Bergoglio è sempre incarnato, non corre il rischio dell’ideologia, né tantomeno dell’ipocrisia.
Se ieri all’udienza generale ha ripreso l’espressione conciliare di Chiesa come “corpo”, sorvolando sul “mistico” che pure l’accompagna, è perché non sopporta il riduzionismo burocratico, la concettualizzazione astratta, la schematizzazione facile. “Corpo” per Francesco implica una linfa vitale che l’attraversa, un capo che “lo guida, lo nutre, lo sorregge”, una serie di membra che nella varietà di funzioni e di compiti costituiscono un’unità preziosa. Una compagine compatta, senza fratture o ferite che disperdano ciò che le da senso e valore. A questo corpo, acciaccato e malmesso dagli scandali, i pettegolezzi di carta, le fragilità umane e gli umori clericali, il Papa chiede di superare personalismi e divisioni, di armonizzare ricchezze e doni. Insomma, come ha gridato più volte ieri, “di voler più bene a Dio e alle persone”, nella convinzione che l’unità è superiore ai conflitti. E che se due componenti del medesimo corpo iniziano a litigare ne soffre tutto l’insieme.
Un’altra delle sue ossessioni sono le chiacchiere: deve aver maturato una vera e propria insofferenza per le cicale e il loro fastidioso frinire. Odia la maldicenza, la parola inopportunamente scagliata, il giudizio tombale. Sa quanto male possono fare. E sa anche che alimentano i conflitti e le incomprensioni. Difficile non ammirare il coraggio con cui mette a nudo una Chiesa che ha sempre tentato di salvare i suoi pulpiti, nonostante l’impegno alla trasparenza e alla conversione testimoniato dai suoi pontefici.
Se Ratzinger più di una volta è sembrato isolato nello sforzo titanico di rendere più coerente, se non più santa, una Chiesa ripegata su se stessa, spesso umiliata dai peccati di alcuni suoi figli, Francesco non vuole correre il rischio dell’emarginazione. Preferisce scartavetrare le mura dell’ovile, a forza di strigliate, che incorrere nel pericolo di un cristianesimo ipocrita e asfittico. Nell’omelia di ieri mattina, nella cappella di Santa Marta, ha insistito con chirurgica fermezza sul pericolo di trasformare la fede della gioia e della magnanimità, in una “casistica” di precetti.
Prendendo a prestito l’ira di Gesù verso scribi e farisei ha messo in guardia contro gli “eticisti” senza bontà, i sacerdoti “delle filatterie che si mettono addosso drappi” per cercare la maestosità e la perfezione ma non la bellezza. Intellettuali senza talento, li ha definiti, ipocriti che si pavoneggiano dei loro “digiuni, nel dare l’elemosina, nel pregare” ma che non sanno riconoscere Dio, la sua grandezza e la sua misericordia. Uno dei giudizi più duri sulla Chiesa di oggi. Che deve forse ritrovare la passione e la purezza di una fede autentica come quella testimoniata fino al sacrificio delle dimissioni da Benedetto XVI, e la forza e il coraggio del suo successore nell’indicare l’unica strada possibile per uscire dalla tempesta.