A una lettura superficiale, le vicende dell’Atac – Francesco Rutelli ha parlato di vero e proprio “circo” – sembrano a metà tra la tragicommedia e il vaudeville. Come spesso avviene in Roma capitale e dintorni. Dopo lo scandalo, vero o presunto di una vera e propria “parentopoli”, le dimissioni di Presidente ed Amministratore Delegato – e quindi la decadenza del Consiglio di Amministrazione – e la notizia che i conti dell’azienda sarebbero tali da imporre di portare i libri in tribunale e iniziare una procedura di fallimento.
Il timore che Roma possa restare senza trasporti pubblici e che i 13.000 dipendenti (tutti necessari?) possano trovarsi senza lavoro e senza stipendio. Sino all’annuncio del Sindaco, Venerdì Santo, che un nuovo management verrà scelto subito dopo la Pasqua son metodo che, se non proprio “bipartisan”, darà voce anche all’opposizione. Ancora non è chiaro come verrà risolto il problema di mancanza di liquidità e se tale nodo non cela una più profonda crisi di liquidità. Il nuovo management (sempre che si trovino persone capaci pronte a prendersi questa mina esplosiva) avrà l’esigenze di un forte supporto da parte di un Comune che, dal canto suo, è al verde.
Sono vicende che devono indurre a riflettere sull’intero settore di quello che è bene chiamare “il capitalismo municipale”. Il comparto ha un ruolo crescente nell’economia del Paese. Il servizio studi della Banca d’Italia ha condotto e diramato un paio di anni fa una serie di interessanti monografie (in italiano e inglese) relative sia a tematiche generali (la regolamentazione attuale e quella che si profila in prospettiva, la creazione di un “capitalismo municipale” costituito non più da piccole aziende, ma da grandi imprese, l’impiego della finanza di progetto e le sue implicazioni) sia a comparti specifici (trasporto pubblico locale, rifiuti urbani, distribuzione di gas naturale, il servizio idrico, taxi e autonoleggio, e via discorrendo).
Le analisi – pubblicate nella collana “Questioni di Economia e Finanza” e disponibili anche su supporto elettronico al sito dell’istituto – rappresentano un contributo importante, anche per chi – come il vostro “chroniqueur” – segue da anni il tema redigendo il capitolo pertinente degli annuari sul “Processo di Liberalizzazione della Società Italiana” pubblicati da Franco Angeli per conto di Società Libera e ha pubblicato un breve saggio nel periodico “Amministrazione Civile”. Senza dubbio il lavoro più aggiornato e più recente esce in questi giorni per i tipi dell’editore Maggioli: un volume curato da Claudio De Vincenti e Adriana Vigneri e intitolato I Servizi pubblici locali tra riforma e referendum, Il volume contiene due ampi saggi di Claudio De Vincenti e Adriana Vigneri, uno scritto introduttivo di Franco Bassanini e un resoconto di un seminario organizzato da Astrid il 15 settembre 2010.
Non solamente si tratti di studi basati su dati aggiornati ma gettano nuova luce (pur se non tolgono tutti gli interrogativi) sulla questione di fondo: nel Paese in cui Giovanni Montemartini inventò, in età giolittiana, le municipalizzate – gli abbiamo dedicato un museo a Via Ostiense, ma i suoi libri sono introvabili in Italia pur se in traduzione in inglese fanno ancora testo nelle università americane – è più urgente, in questo primo scorcio di XXI secolo, liberalizzare o privatizzare al fine di migliorare il servizio e rendere il settore competitivo su scala europea e internazionale?
Il settore è, in primo luogo, molto vasto. Comprende circa 370 imprese, con 200.000 addetti. Alcune imprese sono di grandi dimensioni (si pensi a Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea): risultano da un processo di aggregazione degli ultimi venti anni. I Comuni, le Province e in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti – una delle monografie analizza dieci tra i principali casi aziendali e individua i percorsi “virtuosi” (spesso associati ad un nocciolo duro energetico caratterizzato da alta redditività). Accanto ai “giganti” c’è una miriade di piccole e medie aziende. Complessivamente, formano oltre l’1% del Pil nazionale, ma in alcune Regioni rappresentano il 6% del valore aggiunto prodotto in loco.
Il “capitalismo municipale”, inoltre, è internazionalizzato; sappiamo del ruolo che ha avuto un socio francese nell’Acea, meno noto che l’azionista di maggioranza della società che gestisce gli aeroporti campani è una multinazionale d’origine britannica. Le società miste pubblico-privato, e in particolare quelle con soci stranieri (quindi parte di multinazionali oppure ad esse collegate) presentano indici di redditività superiore di quelle unicamente municipali specialmente in termine di margine operativo lordo. Un’analisi di dieci “Big” del settore delinea, però, vincoli che frenano anche i “grandi” e che impediscono la crescita dei “piccoli”: da un canto, il disegno regolamentare è inadeguato (specialmente nel comparto dei servizi pubblici locali non energetici, e soprattutto nei trasporti) poiché le tariffe non coprono i costi e sono comunque state fissate (anche a ragione della metodologia prevista per legge) a livelli eccessivamente bassi (scoraggiando partner privati, soprattutto quelli stranieri); da un altro, la separazione tra proprietà/controllo (quasi sempre pubblica) e gestione non è sempre sufficientemente netta quanto sarebbe auspicabile.
Lo studio suggerisce “una separazione dei ruoli – di rappresentanza delle esigenze dei consumatori da quella della politica locale e dall’interesse ai risultati economici – attraverso forme di privatizzazione dei gestori con una diluizione delle partecipazioni degli enti locali”, concludendo che ciò “rappresenta un passaggio essenziale per favorire i necessari ulteriori processi di crescita”. A indicazioni analoghe – vale la pena ricordarlo – è giunto tempo fa uno studio del Dipartimento di Economia dell’Università di Roma “La Sapienza”: “una scelta radicale” – “una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” .
Non è, però, un percorso semplice, come suggerisce la vasta letteratura internazionale disponibile in materia e come conferma la vicenda Atac. Una scuola di pensiero, molto presente in studi Ocse oltre che nelle monografie della Banca d’Italia è che la liberalizzazione non solo deve precedere la privatizzazion, ma ne è un’efficace alternativa. Lo sostiene anche una rassegna commissionata dalla Fondazione Bertelsmann.
Un tema innovativo affrontato, a questo riguardo, nei lavori della Banca d’Italia è il ruolo della finanza di progetto, uno strumento relativamente nuovo nell’esperienza italiana (nonostante che all’inizio del XIX secolo ebbe i propri primordi proprio nel nostro territorio – la ferrovia Napoli-Portici nel Regno delle Due Sicilie), ma che negli ultimi anni ha avuto una diffusione molto rapida proprio nel campo dei servizi pubblici locali. L’analisi del servizio studi della Banca d’Italia sottolinea che “la gran parte delle opere – realizzate con questo strumento – ha riguardato iniziative locali per opere poco complesse con contenute interazioni tra costruzione dell’opera e successiva gestione della stessa”.
Inoltre, i promotori sono prevalentemente società di costruzione non gestori di servizi e il finanziamento è fornito principalmente da canali bancari (anche allo scopo di evitare un diretto impegno da parte della pubblica amministrazione). “È uno strumento con molte potenzialità che può anche diventare un grimaldello per una privatizzazione graduale coniugata con liberalizzazioni a tappe, secondo un percorso ben definito”.