Lumen Fidei. I ben informati dicono che sarà un’opera tutta di Benedetto XVI con un’ampia introduzione di Francesco, qualcun altro parla di un lavoro “a quattro mani” dove il pensiero di Francesco si immergerà in quello di Benedetto e viceversa, ma in definitiva poco importa la forma: il testo che, mentre leggete, è appena uscito dalle mani del Santo Padre è qualcosa di unico e di storico. Per la prima volta, infatti, un’enciclica è redatta da due pontefici, entrambi viventi, ma l’uno successore dell’altro. Chiariamoci subito: non è una novità che gli ultimi scritti di un pontificato giungano tra le mani di chi viene dopo e non è una novità che tale materiale sia elaborato e riutilizzato per i primi atti del nuovo ministero, ma che un Papa decida e dica pubblicamente di voler utilizzare un testo del predecessore come fondamento del proprio “nuovo inizio” è qualcosa di assolutamente inedito.
Vorrei che si capisse che la novità non sta tanto nella curiosità storica, che certo passerà agli annali, ma nella sostanza: un atto del genere elimina con un colpo di spugna tutte le dietrologie che il mondo ha narrato in questi mesi su due pontificati diversi e antitetici, il primo profondamente conservatore, mentre il secondo altrettanto profondamente riformista. Niente di tutto questo esiste. Francesco, domenica scorsa lo ha detto pubblicamente, si dichiara “figlio” di Benedetto e come figlio porta a compimento l’opera del Padre. Siamo quasi di fronte ad una successione dinastica, dal momento che gli stessi sentimenti di figliolanza erano stati espressi da papa Ratzinger nei confronti di Giovanni Paolo II. Anche allora, stiamo parlando di quei delicati mesi della primavera del 2005, Benedetto XVI scelse di continuare le catechesi del mercoledì leggendo semplicemente quelle preparate da Wojtyla fino all’esaurimento completo dei suoi scritti. Anche allora, parliamo dell’estate del 2006, Ratzinger affermava che le encicliche importanti erano state scritte dal suo predecessore e che ora si trattava soltanto di capire, di approfondire, di mettere a fuoco il suo messaggio.
Il profeta slavo, il teologo tedesco e il pastore latino-americano sembrano offrirsi alla storia come l’epifania di un’impressionante triade riformista che ha saputo rinnovare gli orizzonti, il pensiero e la prassi della Chiesa Cattolica senza comprometterla col mondo, ma dandole carattere, idee e libertà per incontrare ogni uomo e ogni donna di buona volontà con la stessa forza evangelica che Paolo, Giovanni e Pietro seppero testimoniare in quel primo secolo dell’era volgare. L’atto di oggi, pertanto, va atteso come un gesto di profonda continuità e come una lezione di cristianesimo senza “se” e senza “ma”: quello che ci dice, sfidando la mentalità comune in cui viviamo, è che non dobbiamo mai avere paura di essere figli.
Questo non è soltanto un messaggio spirituale, adeguato ad una coscienza intimamente cristiana, ma è un preciso fatto culturale: Marx, Nietzsche e Freud ci hanno insegnato ad avere diffidenza verso ciò che viene prima di noi, quasi che il nostro presente fosse l’esito di qualcosa di ingiusto o di una limitazione delle nostre potenzialità. Il padre, per questi autori moderni, è un limite alla libertà e alla maturazione del figlio.
C’è una splendida lettera di Franz Kafka che esprime senza mezzi termini questo risentimento nei confronti della paternità: chi ci è stato padre, a livello biologico o sociale o spirituale, ha limitato il nostro io impedendoci di essere veramente noi stessi, instillandoci la paura di essere “Io”. Contro tutto questo, come sempre senza urlare o far clamore, ma con la risoluta fermezza di un pastore, va l’atto epocale di papa Francesco. Un Papa che sceglie di essere figlio della Chiesa, un Papa che elimina le sterili contrapposizioni tra conservatori e riformisti, un Papa che mostra solo il Vangelo, lasciando il mondo a bocca aperta. Non siamo di fronte all’ennesima scelta religiosa di chi si rifugia in un cristianesimo spiritualista e avulso dalla storia, ma siamo davanti ad un nuovo modo di vivere la storia stessa, all’insegna di quella conversione cui Benedetto ha instancabilmente richiamato la Chiesa fin da quando era Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, nell’orizzonte di quell’aprire le porte a Cristo che non riguarda soltanto l’ideologia comunista o capitalista che sia, ma che è un appello di Giovanni Paolo II a me e a te per essere davvero cristiani, per iniziare seriamente a seguire quel volto, quello sguardo, che ci ha cambiato la vita: Cristo Gesù.
Oggi a Roma viene presentata un’enciclica. Essa non racconterà di qualcosa che c’era, di una fede morta che va riportata in vita, di un intimismo da promuovere per trasformare il mondo, di una guerra da combattere per non essere espulsi dalla storia: essa descriverà qualcosa di vivo, qualcosa che potremo vedere sul volto di Francesco, tra le rughe di Benedetto, nel ricordo dei tremiti di Giovanni Paolo. Una passione all’uomo e al suo destino che non può fare a meno che farci partire e correre. Il futuro della fede è la missione. Solo partendo e rischiando – raggiungendo tutti i continenti della nostra quotidianità – diventeremo, giorno dopo giorno, sempre più consapevoli e grati di quello che abbiamo incontrato. Lieti tra le braccia dei nostri padri e commossi fino agli estremi confini della terra. Senza dover dimenticare nulla, senza dover nascondere alcunché, ma pronti a rendere ragione della speranza che è in noi. Buona lettura a tutti!