Per parlare di Stephen Curry e della sconfitta dei Golden State Warriors nelle Finali NBA 2016 non si può non partire dalla foto che ha fatto il giro del mondo: Scottie Pippen che indossa una t-shirt che recita “72-10 non significa nulla senza un anello”. Riferimento al record che i Chicago Bulls del 1996 avevano centrato in regular season, battuto proprio quest’anno dai Golden State Warriors (73-9) segnando un fatto storico; ma riferimento anche e soprattutto al fatto che quella squadra aveva poi vinto un titolo (il primo di – altri – tre consecutivi) e che di conseguenza i Warriors avrebbero fatto bene a non festeggiare prima del dovuto. Quando Golden State è salita 3-1 nella serie finale, con il match point alla Oracle Arena, quell’immagine di Pippen è sembrata essere più un tentativo di frenare la marea gialloblu che altro: squadra totalmente in controllo, Cleveland annichilita, la storia dello scorso anno che si ripeteva. Da lì in avanti, ai Warriors e a Curry è successo di tutto: l’espulsione (discussa e discutibile) di Draymond Green per gara-5, l’infortunio subito da Andrew Bogut, l’uscita per falli dell’MVP di regular season che non l’ha presa affatto bene. Gara-7 poteva segnare la definitiva consacrazione di Curry, e invece ne ha stabilito la sconfitta più bruciante: 17 punti con 6/19 (4/14 da oltre l’arco, 5 rimbalzi e 2 assist, 4 palle perse sono cifre di un giocatore in difficoltà, incapace di tirare fuori la sua squadra dal pozzo che si era scavata. Non è stato un Curry scintillante, per tutta la serie: era già successo un anno fa, e infatti il titolo di MVP delle Finali era andato ad Andre Iguodala. Quest’anno Steph ha ripetuto di fatto quanto si era già visto: ha lasciato ad altri il proscenio, incapace di ergersi a dominatore e clutch player dei Warriors come è stato per le ultime due regular season. Solo in gara-4 si sono visti sprazzi del vero Curry: troppo poco. Soprattutto, quando la squadra aveva maggiormente bisogno di lui (senza Draymond Green e con Bogut a mezzo servizio, e ancora stanotte in assenza del centro australiano) il numero 30 non c’è stato. Resta forse il limite di un giocatore che, non si può certo negare, sta rivoluzionando il modo di concepire il basket; nel momento topico a Curry manca ancora qualcosa per trascinare i suoi al successo. Per intenderci quello che ha fatto LeBron James, capace di riscrivere la storia della sua franchigia e della sua città.