Questo editoriale n. 50 esprime le considerazioni e gli indirizzi elaborati unitariamente e condivisi da tutta la redazione, anche a seguito del fattivo dialogo con i componenti del Consiglio Scientifico della rivista.
La scienza – come evoca Victor Weisskopf nel brano che abbiamo messo in apertura di questo cinquantesimo numero di Emmeciquadro, nel quindicesimo anno di pubblicazione – è un’impresa pienamente umana, con un grande valore conoscitivo ed educativo, oggi ancora non adeguatamente compreso. Non sarà superfluo allora richiamare e rimettere a fuoco in che cosa consista il valore di tale impresa per farlo meglio reagire con le esigenze vecchie e nuove che affiorano nei più diversi ambiti educativi.
Quella scientifica è un’esperienza (che sia ricerca, insegnamento o studio) dove la ragione si esprime in tutta la sua potenzialità; che non consiste, riduttivamente, solo nella abilità analitica e nella capacità dimostrativa. È piuttosto una ragione che si manifesta: – come attitudine a «guardare» la realtà, ad accoglierla con stupore sempre rinnovato, a vedere al di là dell’impressione immediata, a riconoscere il bello e il vero; – come capacità di spiegare, di «rendere ragione» appunto, dei comportamenti della natura; – come sensibilità a percepire qualcosa che va oltre i fenomeni, che rimanda ad altro, a un mistero che sottende tutta la realtà (e non solo quella «incomprensibile»).
Come educare a questo uso della ragione? Ci sembra che ci sia una condizione prioritaria: che l’educatore ne faccia personalmente esperienza; con decisione, con continuità, con gusto. Oggi è forte la tendenza a delegare tutto alle tecniche, agli strumenti sempre più potenti e perfezionati; a giocare sugli «effetti speciali», che possono catturare attenzione e curiosità. Ma sono un’attenzione e una curiosità che non pescano nelle radici del desiderio, comune a tutti e in tutte le epoche, di un incontro autentico con la realtà; facilmente quindi restano in superficie e lasciano il tempo che trovano, senza contribuire a dare impulso alla crescita della persona.
Questa tendenza alla delega strumentale è più forte nelle discipline scientifiche, dove la precisione degli strumenti o la automaticità delle tecniche sembrano essere di per sé garanzia di rigore e di comprensibilità. Ma è proprio nelle scienze che si rivela maggiormente l’insidia racchiusa in un simile approccio; perché a volte lo strumento si rivela insufficiente o inadeguato di fronte a nuovi e imprevisti fenomeni. Così alla sicurezza subentra la delusione, che può tradursi in uno scetticismo che cala come una fitta nebbia sull’intera esperienza di apprendimento, rivelandosi come il peggior nemico di ogni scienza.
I ragazzi e i giovani invece, al fondo, sono sensibili all’esperienza personale, sono pronti a lasciarsi provocare e sono disponibili a mettersi in moto se incontrano un valido «movente». E, se ne abbiamo fatto esperienza personale, sappiamo bene che anche risolvere un’equazione o compiere osservazioni o eseguire misure in laboratorio possono essere delle «provocazioni».
La storia che si è sviluppata in quindici anni, attorno al tentativo espresso da questi 50 numeri, con tutta la rete di rapporti, iniziative, esperienze che si è intrecciata attorno a noi, ci consente di suggerire una modalità per affrontare il lavoro educativo quotidiano e mantenerlo all’altezza delle aspettative ed esigenze reali degli studenti, ma anche degli stessi insegnanti: è il metodo del lavoro comune, della condivisione di tentativi, di rischi, di intuizioni, di iniziali risultati. Insomma, la strada di un’amicizia all’opera.