Un gruppo di 25 multinazionali Usa ha dato vita ieri ad “American Made Coalition”, un cartello che si propone di appoggiare la politica di aumentare in maniera rilevante le tasse sulle importazioni negli Stati Uniti, sostenendo che così si tuteleranno finalmente “i posti di lavoro e i prodotti americani”. Fanno parte dell’iniziativa alcuni dei maggiori gruppi industriali del pianeta, che vantano basi produttive e vendite un po’ in tutti gli angoli del pianeta. Tra cui General Electric, la conglomerata industriale più importante, ma anche il colosso del software Oracle. E pure i giganti del pharma Eli Lilly e Pfizer, fino a pochi mesi fa impegnati a escogitare sistemi per sfuggire al fisco Usa. Ma la prospettiva di un forte ribasso delle imposte ha scosso le coscienze delle Corporations, che hanno riscoperto una vena patriottica.
Non tutte, però. La soluzione di alleggerire le imposte agli esportatori trasferendo l’onere sui prodotti importati già suscita forti reazioni. Centoventi società, come Walmart o Target, che importano (perlopiù dall’Asia) i prodotti destinati ai supermercati Usa, e associazioni commerciali hanno dato vita a un gruppo che si propone di combattere al Congresso la border tax sostenuta dal Presidente, un provvedimento che, accusano, servirà solo ad aumentare i prezzi dei prodotti a danno dei consumatori. “È un prezzo che possiamo pagare – replica Peter Navarro, messo a capo del New National Trade Committee dallo stesso Donald Trump -. È più importante avere più posti di lavoro sicuri e ben pagati”. Navarro è l’economista che ha lanciato l’offensiva contro la Germania, accusata di manovrare il cambio dell’euro sul dollaro a vantaggio dell’export verso gli Usa. Ma la sua specialità sono le campagne contro la Cina, a suo dire grande manipolatrice dei cambi. Intanto i Big della new economy si schierano contro la chiusura delle frontiere: a partire da Google, all’improvviso a corto di ingegneri yemeniti e iracheni.
Bastano questi episodi per dimostrare che una delle partite decisive dell’era Trump non si giocherà sul fronte fiscale. Non solo in Usa perché, come sostiene il repubblicano Kevin Brady, responsabile della commissione del Congresso, la riforma fiscale avrà ripercussioni nel resto del mondo. Proviamo a capire perché. Le imprese americane verranno infatti tassate solo sulla differenza tra ricavi domestici e costi domestici e l’aliquota sarà, presumibilmente, del 20% (contro il 35% di oggi). I costi esteri non saranno quindi deducibili, saranno trattati come reddito e saranno di conseguenza tassati al 20%. L’export, in quanto reddito non domestico, sarà invece tax-free. Gli Stati Uniti diventeranno così molto più competitivi anche se occorrerà qualche anno perché le imprese adeguino la loro filiera produttiva alla nuova realtà fiscale. Non sarà semplice ridisegnare, ad esempio, la filiera dell’auto che oggi coinvolge migliaia di componenti spesso in arrivo da più Paesi. Un sistema del genere tende a comprimere gli scambi internazionali, applaude Brady. “I vantaggi a produrre in America saranno tali da sconfiggere ogni forma di incentivo a delocalizzare lavoro, ricerca o i frutti della proprietà intellettuale”.
Occhio al dollaro, infine. I rapporti di cambio tra le valute tendono a seguire l’evoluzione del differenziale di competitività, perciò è chiaro che la valuta del Paese che migliora la sua competitività tenderà a rafforzarsi. Non è quello che sta capitando, perché Trump, con le sue iniziative, sta mettendo a dura prova i mercati. Ma è probabile che, prima o poi, il dollaro risalirà.
In sostanza emerge un mondo in grande subbuglio, dominato da una potenza mercantilista che si oppone a un improbabile difensore del libero scambio, la Cina. Un mondo che non potrà che riservare grandi sorprese. Non è affatto detto, ad esempio, che il rimpatrio dell’industria dell’auto dal Messico (con pesanti costi anche per gli investimenti Usa nel Paese centroamericano) comporti un aumento dell’occupazione: molti lavoratori saranno sostituiti da robot che non sarebbe economico utilizzare in Messico. Ma ci saranno anche effetti positivi. Forse Cina e Germania sposteranno il focus delle loro economie sul mercato interno, con grande beneficio per le controparti commerciali.
Per ora, però prepariamoci a una fase complicata per la nostra industria manifatturiera: ad esempio, converrà ancora produrre in Italia le Alfa da vendere negli Usa?