Una delle caratteristiche dell’istruzione professionale e dei percorsi di istruzione e Formazione Professionale (IFP) è che in essi, a differenza dei percorsi scolastici liceali, il fenomeno umano e sociale chiamato lavoro non è un orizzonte più o meno lontano, ma una realtà con cui docenti e allievi si devono confrontare da subito.
Il nostro sistema scolastico, di fatto, percepisce il lavoro come una condanna, un fardello irrazionale, separato dalla persona e dalla sua vita “vera”, anzi ostile, utile semplicemente per “avere dei soldi” e concepisce il lavoro come una serie di azioni meccaniche, impersonali, prive di un senso che abbia a che fare con la propria vita.
La vera alterità tra scuola e formazione professionale è legata a questo fatto (e problema) del lavoro e non tanto a problemi didattici o di valutazione, che ne sono una semplice conseguenza.
Diversamente, una IFP che accetti questo fatale apriori sul lavoro non potrà che costruirsi come un amaro ma inevitabile calvario, a cui abituare i ragazzi mediante dosi progressive di addestramento a compiere le azioni richieste da un certo profilo professionale, ridotto alla sua basilare operatività: questo modello, essendo estrinseco per sua natura, è comunque compatibile con una dose secondaria di cultura elementare, anche con qualche percorso umanistico più che dignitoso: la sostanza però non cambia.
Dualismo tra lavoro e vita
Per valorizzare l’esperienza del lavoro, l’affinamento dell’addestramento laboratoriale o il “contorno” culturale più o meno di qualità non sono strade adeguate, soprattutto perché hanno accolto, più o meno implicitamente, il presupposto che dovrebbero combattere, cioè quel dualismo tra lavoro e vita (più precisamente tra lavoro e senso, quindi tra lavoro e formazione) di cui prima parlavamo.
Sfidare questa concezione significa prima di tutto sfidare un’idea dominante non tanto nei ragazzi quanto negli adulti (insegnanti, aziende e genitori non esclusi): per cui il problema non sarà tanto interrogarsi se stiamo vivendo così (data la sua pervasività assolutamente dominante), ma come lo stiamo vivendo e se la nostra cultura didattica lo ha come centro, implicito o scientemente affermato, del suo operare e della sua riflessione. Significa quindi che noi che lavoriamo in questo settore dobbiamo domandarci se non stiamo vivendo, noi per primi, a partire da questo dualismo – è questa la prima e più importante condizione perchè i ragazzi imparino-; in tal caso non ci si stupisca se i nostri allievi impareranno così bene ciò che viviamo noi in prima persona davanti a loro e che permea la struttura stessa del percorso scolastico che per loro abbiamo progettato.
Andare in un’altra direzione significa accogliere l’ipotesi che il lavoro, anche quello più umile, anche quello manuale, abbia in sè un suo senso e quindi un suo valore formativo, come ricordava Diego Sempio in un suo articolo apparso sul quotidiano Avvenire.1
Significa per gli insegnanti resistere alla tentazione ideologica di partire dall’idea che esista un Profilo Docente Universale in rapporto a un Sapere Unico, che poi si declinerà secondo una scala discendente e sempre più impoverita (ma con un’unica Forma) dall’università alla formazione professionale.2
E quindi ripartire semplicemente dal coraggio di stare di fronte alla domanda su che cosa voglia dire cercare di insegnare una certa cosa, in un certo percorso professionale, con certe finalità e a una certa tipologia di allievi. La risposta non sarà mai data una volta per tutte, ma si camminerà lungo una strada avventurosa e ciò che faremo e che tenteremo tornerà forse nuovamente a parlarci e a guidarci.3
Un impegno con la realtà
Per tutti noi la sfida è ricominciare a guardare il lavoro come un impegno con la realtà in grado di generare anche un’eccellenza nella conoscenza, pur dovendosi sempre misurare con l’esito dell’impatto concreto che il lavoro genera (e che non è solo utilitaristico). Occorrerà inoltre aiutarci a ricominciare a guardare il lavoro a partire dalla sua eccellenza, non importa di quale mestiere si tratti, quell’eccellenza che ancora oggi costituisce una risorsa unica nella recente storia del nostro paese, intessuto di microimprese nate dalla genialità di uomini che non hanno concepito il loro lavoro come meramente applicativo.
Per fare questo, nel mondo dell’istruzione e formazione professionale due mondi da subito si incontrano: il mondo della conoscenza, dell’apprendimento e il mondo del lavoro. Ciascuno ha e avrà qualcosa da dire all’altro e, come in ogni vero incontro, ne usciranno cambiati entrambi. Che questo non resti un semplice accostamento tra due estranei, ma una vera alleanza, è il compito che si prefigge ogni IeFP che voglia essere all’altezza della sfida che i nostri giovani ci pongono senza neanche dircelo.4
In questo compito (coniugare lavoro e pensiero)5 l’esperienza scolastica negativa dei ragazzi rappresenta un handicap grave che troppo spesso impedisce di affrontare altro: infatti occorre fortemente rimotivarli, aprire una breccia nel muro soffocante creato da questo dualismo che hanno assorbito così bene e questa non è una cosa che si produce automaticamente, ma implica tempo e fatica.
Progettare percorsi realmente significativi per i tanti ragazzi che non “reggono” più la scuola e vengono dirottati verso la IFP, parte anche dal lasciarsi affascinare e interrogare dalle potenzialità formative del lavoro, al di là di preconcetti e ideologie.
1 Diego Sempio, “Il lavoro manuale è cultura che abbatte i muri tra sapere e fare”, apparso su Avvenire, 18 settembre 2011
2 Paolo Ravazzano, “Formazione docenti: non esiste l’insegnante comemodello unico”, IlSussidiario.net, 2009
3 In proposito diventerebbe suggestiva un’affermazione di Emanuel Mounier: “L’avvenimento sarà la nostra guida interiore” (da «Corrispondence», in Oevres, tomo IV, p.817)
4 Maggiori riflessioni al riguardo in Paolo Ravazzano, “Quel brutto e cattivo ‘utile’ che ha rotto l’incantevole ozio”, IlSussidiario.net, 2011
5 Recentemente, su questo dualismo e sulla necessità del suo superamento, Felice Crema scriveva: “Una concezione della conoscenza (e di conseguenza una pratica didattica) che intenda mettere al centro la realtà non può che ripartire da quell’ora et labora cristiano che supera di colpo l’antitesi otium-negotium proprio del mondo antico”. In “Scuola: quale conoscenza?…”, ilSussidiario.net, 2011