Carlo Petrini, Milano ospiterà l’Expo del 2015. Giorgio Vittadini ha fatto di recente questa considerazione: che l’Expo non debba genericamente porsi l’obiettivo di risolvere i problemi mondiali, ma mostrare le best practices culturali, associative e imprenditoriali. Lei che ne pensa?
Penso che questo sia effettivamente lo spirito giusto. Un’esposizione universale deve essere innanzitutto un momento di confronto e programmazione di idee. Certamente ogni expo ha il suo pendant funzionale al riassetto della città. Ma la candidatura di Milano si è basata su determinati contenuti e quelli devono esser il cuore dell’evento. Non devono essere messi da parte ma nemmeno illudere sulle reali aspettative. Sarebbe fraintendere il senso dell’evento fieristico.
«Nutrire il pianeta, energia per la vita»: in questo titolo ci sono temi a lei cari. Cosa le suggeriscono? Come deve cambiare Milano per venire incontro a questi temi-chiave?
Milano ha davanti due strade. La prima è mettere in pratica esempi virtuosi. Come ho richiamato nel mio ultimo intervento su L’Espresso, dedicato al Parco Agricolo Sud Milano, uno di questi è l’agricoltura di prossimità: non far viaggiare molto le merci, consumare meno CO2, rivitalizzare l’agricoltura del territorio. Questo progetto non può prescindere dalla valorizzazione delle risorse esistenti. Il Parco agricolo Sud Milano ne è un esempio: è un’opportunità straordinaria che, diversamente dalle idee planetarie – che spetterà ad altri studiare e realizzare – si basa sulla ricchissima dote che viene alla città da questa vasta zona agricola. E in otto anni lo si può fare.
La seconda strada è fare dell’Expo una reale agorà dell’agricoltura e dell’alimentazione mondiale.
Lei ha osservato che l’agricoltura oggi e in posizione di totale subordine al mondo della produzione industriale. Perché?
Abbiamo perso completamente il senso profondo del valore cibo, quando abbiamo votato la nostra alimentazione ad una produzione agricola massiva e all’industria alimentare. Non diamo più valore al pane quotidiano. Ogni giorno in Italia buttiamo via 4000 tonnellate di cibo. Abbiamo anteposto interessi produttivistici all’agricoltura. Che non è un settore economico, come la siderurgia o il tessile, ma un “mondo” che richiede un approccio molto più profondo, di tipo olistico. Dire agricoltura è dire ruralità, sacralità delle cose, identità, memoria. È nell’agricoltura che si gioca il senso dell’uomo per l’ambiente. Ne abbiamo fatto solamente un settore commerciale, ma così ne abbiamo perso l’anima.
Come dare corpo a queste idee e farle confluire in un modello di sviluppo?
Dal 2004 a Torino Slow Food convoca una grande assemblea rappresentativa della comunità del cibo, che si chiama Terra Madre. Vi sono rappresentate 3000 comunità provenienti da 154 paesi. La nostra sfida è elaborare una politica della terra e dello sviluppo che in ogni paese possa crescere basandosi sulla specificità del luogo. È una grande esperienza che rafforza l’economia locale mantenendosi in rete.
Dal punto di vista ambientale, cosa può tornare ad unificare una metropoli in continua evoluzione come Milano, con la “sua” zona agricola costituita dal Parco Sud?
Un nuovo patto tra città e campagna. Il “contado”, da cui il nostro termine ineguagliabile di contadino, era parte della città. Come sua parte integrante e insostituibile, per secoli l’ha servita. Abbiamo rotto il rapporto città-campagna, abbiamo perduto il valore culturale del cibo e abbiamo pensato che la terra fosse una risorsa amorfa da poter sfruttare all’infinito. Dobbiamo trovare nell’economia locale, nella forza vitale di una “agricoltura di prossimità” il senso anche del mantenimento dell’ambiente.
L’ambiente oggi pare terreno esclusivo di un preciso orientamento culturale, schiacciato su posizioni ideologiche. Come tirarlo fuori dalla sacca culturale in cui si trova?
Con una buona pratica quotidiana. Perché ritengo che quel parco sia così importante per Milano? Sottolineo che si chiama Parco Agricolo. Un semplice parco può essere il terminale di un utilizzo a fini di svago, ma non è questo che ci interessa, bensì il profondo rapporto dell’uomo con la natura che l’agricoltura è capace di realizzare. Che cos’è la coltivazione se non una cura sui generis dell’ambiente? L’agriturismo, per esempio, può essere per il contadino l’opportunità di avere un ulteriore reddito. Ma non può essere il baricentro di un sistema, che deve invece stare in una buona produzione agricola e in nel rapporto con la città. Ecco, l’agricoltura di prossimità è quello che più ci può aiutare, a mio parere, ad uscire da una falsa concezione dell’ambiente e a ritrovarne il senso originario.
Quali sono i principali errori che Milano non deve commettere in vista dell’Expo?
Gli errori insiti nella trama di un immenso business, in cui alla centralità dell’uomo si sostituisce la centralità degli affari. Siccome il tema dell’Expo non è questo, tradirlo sarebbe davvero un brutto scherzo che giocheremmo a noi stessi.
Che cosa rappresenta l’Expo per Milano?
L’Expo offre a Milano un’opportunità unica al mondo. E questo Parco agricolo, se sviluppato nell’ottica dell’agricoltura di prossimità, per Milano è un’immensa ricchezza. Saper vedere quest’opportunità, certo, richiede uno sforzo e un cambio di mentalità. Utilizzare questi 47 mila ettari, con le mille aziende agricole che vi operano, può voler dire sviluppare nuove figure professionali per i giovani, mestieri che tornano ad essere legati alla terra, tornare a sviluppare l’agricoltura, può voler dire “bypassare” tanta grande distribuzione, che fa arrivare il cibo sulle nostre tavole da migliaia di chilometri di distanza. È, prima di tutto, una grande opportunità ideale.
Milano, dal dopoguerra, è diventata capitale industriale del paese, godendo di un indiscutibile primato economico-culturale. Oggi assistiamo alla sua trasformazione in un grande centro di servizi, con un aumento del suo tasso di “astrazione” culturale. Lei propone un ritorno alla terra?
Sì, ma con due precisazioni fondamentali da fare. La prima sta nel valore in se della campagna come risorsa culturale. Le seconda è che il ritorno alla terra, oggi, non può essere un ritorno al passato. Il ritorno alla terra, oggi, è quanto di più moderno esiste. Dobbiamo riportare al centro l’economia primaria: non mangeremo computer. Il compito oggi è ridare dignità alla professione di chi lavora la terra. Il contadino medio italiano oggi ha un’età media superiore ai 60 anni. Senza una nuova identità agricola non abbiamo futuro.
Cosa vuol dire oggi creare un progetto sostenibile? Quali requisiti deve avere un progetto come quello che lei propone per l’Expo?
Significa fare economia nell’accezione etimologica, storica: da oikos, casa. Fare economia è curare la propria casa. È quello che non fa l’economia capitalistica globalizzata, che anzi sta distruggendo la terra madre. Non possiamo perseguire uno sviluppo economico sulla base dell’ipotesi di un’infinita disponibilità delle risorse. La vera sostenibilità è quello che chiamo “governo del limite”, e saper governare il limite è oggi la nuova sfida del rapporto tra l’uomo e la natura.