«Troppe volte, per non dire quasi sempre, la scuola, al posto di adoperare le discipline di studio e la cultura come cespiti preziosi (mezzi) per la formazione integrale della persona (fine), fa il contrario: mette le persone (fine) al servizio delle discipline e della cultura previste nei programmi di insegnamento (mezzo)». Così scrive il prof. Giuseppe Bertagna in uno dei suoi ultimi volumi: “Fare Laboratorio” (Ed. La Scuola) analizzando il rapporto tra scuola e lavoro, tra formazione ed impresa. «Addirittura – continua il professore – la scuola dichiara formata la persona dello studente solo se esso dimostra di possedere le discipline di studio e la cultura a livelli standard predeterminati astrattamente dagli organismi statali di controllo e programmazione che la reggono». La cosa appare ancora più grave se consideriamo che «la scuola moderna si è costituita e giustificata, negli ultimi secoli, sull’idea stessa della separazione. Separazione dalla famiglia, dalla società, dall’ambiente, dall’impresa […] Separazione tra età della scuola ed età del lavoro, […] tra lezione e laboratorio, tra teoria e pratica». Possiamo superare questo invasivo paradigma della separazione, magari cominciando a recuperare il senso del lavoro, dello studio, del fare scuola?
Che cosa vuol dire «lavoro»? E che cosa «studio»?
A seconda del significato che si attribuisce ai due termini, essi risultano tra loro opposti oppure integrati, quasi fossero le facce di una stessa medaglia. Se per lavoro si intende qualcosa che sia il contrario dell’agire intenzionale, razionale, libero e responsabile allora è ovvio che si tratti di cosa ben diversa dallo studio. E in effetti capita spesso che ci siano lavori svolti in questo modo. Ma la stessa cosa vale per lo studio: un ragazzo che apre i libri senza intenzionalità, riflessività razionale, libertà e responsabilità in realtà non sta studiando, ma passando il tempo o comportandosi come un animale o un automa. Io, nei miei libri e nella mia attività accademica, da tempo sostengo che, se i due concetti sono stati a lungo ritenuti tra loro opposti, è giunto il momento storico di connetterli e di rompere il pregiudizio secondo il quale lavora chi non studia o non è riuscito a studiare e studia solo chi non lavora o fa lavorare gli altri.
Oggi, nella scuola italiana, in particolare nel primo ciclo di istruzione, come convivono la dinamica dello studio e quella del fare, del laboratorio/lavoro?
Per colpa di una cultura ideologica e anche purtroppo poco colta abbiamo passato gli ultimi 40 anni della nostra storia ad epurare la scuola primaria e la scuola media da ogni traccia di lavoro e di impiego del lavoro come mezzo sistematico per l’apprendimento. Dimenticando, anzi censurando, una tradizione pedagogica e didattica in proposito al contrario ricchissima e che aveva trovato anche nel periodo dell’attivismo suoi significativi esponenti. L’educazione tecnica ridotta a studio del libro di testo. Paradossale. Mi ricordo bene, ad esempio, i veri e propri insulti che corredarono le proposte della riforma Moratti volte a far scoprire anche ai maschietti la differenza di fisica e di chimica, oltre che di antropologia, di storia e di geografia, esistente tra il «lavoro casalingo» del bollire invece che dell’arrostire o stufare i cibi, oppure del tessere lana al posto che lino o canapa ecc. «Lavare i piatti» o «fare il bucato» per noi, in questo modo, è diventato, per i ragazzi, fin da piccoli, il segno di una punizione sociale e il simbolo di un rango culturale inferiore, non una straordinaria e motivante occasione a costo zero per imparare bene la matematica, la chimica, la fisica, la biologia, l’ecologia, l’antropologia, la geografia, la storia, la linguistica e la letteratura di un pulito veramente tale. Con buona pace di tutte le omelie verdi che ci angustiano in ogni dove, dalla culla alla tomba. Ma che cos’è, invece, la dinamica indicata, se non la vera alternanza formativa tra lavoro e scuola, tra scuola e lavoro, con l’uno che si rovescia nell’altro, ora l’uno mezzo per l’altro considerato fine formativo e subito dopo il contrario, quanto è fine formativo usato come mezzo per la formazione personale, e che, insieme, però, si approfondiscono per farsi reciprocamente migliori? La svolta delle «unità di apprendimento», contrapposta alle «unità didattiche», aveva questo significato: fare i conti con compiti reali in situazione, usarli ora come fine da eseguire bene e ora come mezzo per imparare e soprattutto per crescere meglio come persone capaci di intenzionalità, razionalità (cultura), libertà e responsabilità. Siamo riusciti ad addomesticare anche queste proposte, riducendole a formule meccaniche, a didatticismi poco sopportabili, a parole stendardo buone per tutte le stagioni.
A quale condizioni la scuola può diventare un autentico luogo di lavoro che prepari gli studenti al mondo di oggi?
Il primo è che gli insegnanti facciano percorsi di formazione durante i quali esperiscano in prima persona e in maniera sistematica l’alternanza formativa tra scuola e lavoro. La scarsa diffusione di questa metodologia didattica è anche questione di impreparazione tecnica a praticarla.
La seconda è che si smetta di investire denari per laboratori scolastici spesso obsoleti non appena sono stati allestiti e poi, purtroppo, addirittura lasciati alla polvere per mancato uso. Sostituire, invece, i laboratori scolastici con una rete viva di luoghi territoriali (un’impresa, un ufficio, un servizio, un’attività commerciale, una stalla ecc.) nei quali i ragazzi possano essere accompagnati a scoprire la ricchissima teoria disciplinare e interdisciplinare nucleata in questi spazi, in queste macchine, in queste relazioni che esse richiedono a chi le adopera ecc. E ciò che non è già disponibile nella mappa a rete dei territori va costruito, sperimentato, proposto a scuola, coinvolgendo quanti più attori sociali possibili, a partire dai genitori. Questo deve essere il vero significato dello stage e del tirocinio, nonché della modalità laboratoriale con cui queste esperienze formative vanno condotte.
La terza è attuare almeno dopo dieci anni la normativa del 2003: trasformare le scuole nelle migliori agenzie di intermediazione disponibili in un territorio. In altri termini, il placement e l’orientamento dei giovani affidato alla rete di rapporti che ogni scuola deve instaurare, per fare bene il suo mestiere formativo, con le imprese, con i centri per l’impiego e con le agenzie anche private di intermediazione esistenti, divenendo motore dello sviluppo territoriale. Inutile osservare che, in questo modo, dovendo preoccuparsi della «collocazione» dei propri allievi, ogni scuola sarà stimolata anche a ridurre sempre più il mismatch tra competenze promosse e competenze richieste, così non solo innovando i propri percorsi formativi in un dialogo continuo con il territorio, ma anche «educandone» le domande ed arricchendone il know how.
Possiamo dire che la scuola educa al lavoro come categoria culturale, non semplicemente come una questione economica? (rif. Fare laboratorio, pag. 39)
Ciascuno può darsi la risposta in base a quanto ho detto nei punti precedenti. Dico solo che i nostri attuali gravissimi problemi di crisi economica sono nati proprio dal ridurre la questione economica a quella riguardante esclusivamente l’utile e magari l’utile speculativo della finanza. Torniamo, invece, ad Aristotele, ma anche ad Adamo Smith o a Schumpeter e a tutti gli altri veri economisti, fino a Caffé: sono sempre stati, allo stesso tempo, anche filosofi morali, filosofi politici, uomini di grande aperture interdisciplinari, persone capaci di grande letteratura e di grandi domande. Uomini di cultura, insomma. Per cui non vedo nulla di male nel collegare la scuola a questo modo non corrivo di intendere l’economia.