«In periodo di crisi ancora una volta il tasso d’interesse e l’imposta sui profitti vengono a essere ridotti, ma nel boom successivo non vengono rialzati. In tale caso il boom durerà più a lungo, ma terminerà di nuovo in una nuova crisi, in quanto la semplice riduzione del tasso d’interesse o dell’imposta sui profitti non elimina ovviamente le forze che suscitano le oscillazioni congiunturali nell’economia capitalistica. Nella nuova crisi occorrerà ulteriormente ridurre il tasso d’interesse o l’imposta sui profitti e così via. In tale maniera in un tempo non troppo lontano il tasso d’interesse dovrebbe diventare negativo e l’imposta sui profitti dovrebbe essere sostituita da un sussidio. Lo stesso si verificherebbe qualora si cercasse di mantenere il pieno impiego con l’aiuto di incentivi per gli investimenti privati. Il tasso d’interesse e l’imposta sui profitti dovrebbero venir continuamente ridotti.
In aggiunta a questo fondamentale difetto del combattere la disoccupazione incentivando gli investimenti privati esiste ancora una difficoltà ulteriore di carattere pratico. La reazione degli imprenditori all’impiego degli strumenti dei quali abbiamo parlato non è sicura. In tempi di crisi grave possono aver aspettative molto pessimistiche e la riduzione del tasso d’interesse e dell’imposta sui profitti può allora per lungo tempo agire in maniera molto ridotta sugli investimenti e quindi sul livello della produzione e dell’occupazione.
Persino coloro che si dichiarano favorevoli a combattere la crisi creando degli incentivi per gli investimenti privati spesso non fanno affidamento esclusivamente su tale metodo, ma prendono in considerazione ugualmente gli investimenti pubblici. La situazione si presenta attualmente come se i “capitani d’industria” e i loro esperti avessero tendenza ad accettare, come “male minore”, un’attenuazione della crisi tramite le spese pubbliche finanziate per via del deficit di bilancio. Sembra tuttavia che essi siano ancora ostinatamente contrari a un accrescimento dell’occupazione ottenuto sovvenzionando il consumo e agli sforzi di mantenere il pieno impiego».
Questo passo del famoso – e dimenticato – saggio di Michal Kalecki sugli “Aspetti politici del pieno impiego”, scritto nel 1943 e poi rivisto pochi mesi prima della sua morte nel 1970, non può non venire alla mente oggi che si aprono tutta una serie di questioni da tempo non affrontate nel dibattito economico e politico-istituzionale. Siamo dinanzi a una profonda trasformazione della composizione del capitale su scala mondiale, in cui le spese di capitale per la creazione di possenti industrie manifatturiere di grandissima dimensione di scala è stata sempre più sostituita, percentualmente, da nuove e diverse spese di capitale per costruire la nuova industria dei servizi a più bassa intensità di capitale fisso e a più bassi costi di transazione.
Questo è stato in primo luogo l’effetto dell’avvento dell’ultimo ciclo di innovazioni à là Kondratieff fondate sull’Itc: una diversa composizione organica del capitale ha così condotto su scala mondiale a una trentennale caduta dei tassi di interesse. Di ciò ha enormemente beneficiato la componente finanziaria ad alto rischio del capitalismo moderno, come si è visto con la crisi da eccesso di rischio che si è abbattuta nel mondo globale dopo la deregulation di Clinton e di Blair. Questa deregulation ha consentito di attutire – come è noto – la crisi ciclica di sovrapproduzione per bassi tassi di consumo internazionali, che tuttavia si è ugualmente abbattuta come un maglio sul mondo globalizzato.
La finanza ha fatto “prendere tempo” a questa crisi per mancata realizzazione del profitto, cartolarizzando gli indebitamenti e allontanando la caduta delle corporation che non a caso si sono trasformate ampliando i rendimenti finanziari a fianco di quelli industriali. D’altro canto, fortunatamente, la politica di espansione monetaria propugnata dalla Federal Reserve ha convinto i capitalisti internazionali a non sottrarre quote così ingenti di capitale dalla spesa per investimenti a un punto tale da provocare un crollo forse irreversibile del sistema capitalistico mondiale.
La finanza ad alto rischio e la politica monetaria espansiva hanno consentito agli Usa, e al mondo, di superare il punto più basso della crisi e consente ora all’Europa piagata dalla politica di austerità di respirare, grazie all’avvento, nell’eurozona, di nuove spese di capitale finanziario che consentono di promuovere un’illusione, finanziaria appunto, di nuova crescita. Ma il problema rimane: la disuguaglianza crescente con bassi consumi frena l’aumento dei tassi di interesse così come la bassa spesa di capitale; tutto si incrocia e si sovrappone
L’austerità europeo-teutonica fa il resto, ossia i vincoli del pareggio di bilancio laddove esistono istituzionalmente (solo nell’ Europa e per ragioni strutturali che ben conosciamo) sono un ulteriore incentivo alla diminuzione di tassi di interesse, perché impediscono l’avvento dell’altra spesa di capitale che potrebbe spezzare il circolo vizioso, ossia la spesa pubblica per investimenti che si è invece voluto ridurre bestialmente perseguendo una politica di esclusione sociale e di attacco alle conquiste del welfare del secondo dopoguerra con una violenza sinora mai vista nella storia capitalistica.
La deflazione è il suggello monetario a questa trasformazione – dalle conseguenze immense – della struttura del ciclo dell’accumulazione allargata capitalistica. Sorgeranno enormi problemi nella riproduzione stessa della società e che il dibattito sul debito pubblico dominato da versioni monetaristiche non consente di volgere positivamente verso politiche di pieno impiego. Solo il ritorno a una politica di pieno impiego sostenuta da investimenti pubblici e da misure atte a incoraggiare l‘investimento di capitali privati potrà invertire la rotta, ma le sofferenze sociali saranno enormi e una rivoluzione culturale è necessaria per rovesciare il nichilismo e l’ingiustizia dilagante.