Convegni Piacentini primavera 2013 “Il Lavoro si Impara a Scuola”. Tavola rotonda. Terzo intervento
Parto dalla questione dell’utilità volendo evitare però il rischio del “corto circuito immediato”: la scuola ha una sua utilità perché così il ragazzo impara un lavoro, ma non è questa la questione, o meglio, l’utilità non va intesa immediatamente in quel termine, non va collocata alla fine di un percorso, perché l’utilità di cui parlava Diego Sempio è l’utilità che si riscontra poi in tutte le esperienze in cui la scuola e il mondo del lavoro riescono a parlarsi bene: è innanzitutto un’utilità nel momento. Lui ha usato un’espressione molto pregnante: lo scopo del lavoro è dentro il processo.
Lo scopo del lavoro è dentro il processo, non è fuori, non è un altrove, non è un miraggio, e quello che sto facendo si compie con il suo scopo.
Il lavoro si compirà nel suo scopo, si compirà perchè tirerò in piedi la mostra, perché venderò quella cosa lì, perché consegnerò il progetto, perché consegnerò il manufatto eccetera eccetera: lo scopo è dentro il processo, non è fuori.
Questo è il primo livello dell’utilità che i nostri ragazzi percepiscono. Non è un’utilità su di sé nel futuro, ma un’utilità della cosa che sto facendo, cioè del senso della cosa che sto facendo, che non è dato da qualcosa che sta fuori, ma si spiega da sé, ha un senso che si spiega da sé: questo provoca l’interesse perché a questo punto, nel dare il senso alla cosa sto facendo, c’è quello che porto io, quello che sono io a prescindere dalla scuola.
Mi colpiva molto prima quando Paolo faceva la ricostruzione storica partendo dalle provocazioni della Cresson, il tema della scuola come non più unico luogo di apprendimento: ma la scuola non è mai stato l’unico luogo di apprendimento, anzi, la scuola quando funzionava, funzionava proprio perché non era l’unico luogo di apprendimento, perché i ragazzi che andavano al Liceo avevano un luogo di apprendimento che era la famiglia borghese colta; i ragazzi che facevano le scuole commerciali (di cui si festeggia il cinquantesimo anno dall’abolizione) avevano un luogo di apprendimento che era la famiglia dove la gente faceva un mestiere, un mestiere artigiano, un mestiere operaio; la strada era un luogo di apprendimento, i luoghi di apprendimento ci son sempre stati.
Il problema è che noi viviamo questa strana tensione per cui davvero vogliamo che la scuola sia unica. Cioè il problema non è che la scuola è purtroppo diventata l’unico luogo di apprendimento: è che la scuola vuole essere l’unico luogo di apprendimento.
Quando sbagliamo a fare la scuola è perché vogliamo che sia l’unico luogo di apprendimento. Allora l’utilità del lavoro in questo senso è che il lavoro, il mondo del lavoro, la collaborazione, le varie forme di collaborazione, possono essere la situazione per cui la scuola non è l’unico luogo di apprendimento.
Se io vivo, lavoro in una scuola, in un istituto tecnico o professionale, dove per forza faccio i conti con il mondo del lavoro (poco o tanto: poco perché mando i miei ragazzi a fare una gita in un’azienda che lavora nel settore, tanto perché faccio l’alternanza scuola-lavoro, lo stage eccetera eccetera) io porto dentro di me un altro soggetto, un altro con cui fare i conti e quindi automaticamente non sono più, io scuola, l’unico luogo dell’apprendimento, riconosco che c’è un altro, buono o cattivo che sia (non è detto che sia il più fantastico degli imprenditori), ma riconosco che dentro al mio percorso ce n’è un altro, c’è un altro soggetto che dice la sua.
Questo a mio parere, e l’ho visto accadere, è il primo passo affinché la scuola cominci a funzionare. Perché si ri-orienta tutto quanto.
Questo è il perché scuola e lavoro si devono parlare.
Adesso stiamo guardando il versante della scuola che ha un grandissimo bisogno di non essere sola, ha bisogno di aver qualcuno che “rompe l’anima” e che dia occasioni a “ ‘sto ragazzo qua” di fare altro, qualcosa che non sia la scuola, non in alternativa ma in aggiunta, in integrazione, perché come giustamente veniva detto, l’agire, il fare, la soggettività dei nostri ragazzi spesso e volentieri non vengono stimolati, se non pochissimo.
Recentemente facevo lezione in quarta istituto tecnico: dovevo fare un capitolo sulle legislazioni, sul bilancio e a un certo punto ho detto: «Ragazzi, spiegatemelo voi che cos’è il bilancio, sapete voi, infatti, che cos’è, come si fa, come funziona il conto economico, lo stato patrimoniale, la nota integrativa, l’avete fatti, no?»
Allora loro mi hanno spiegato che cos’è un conto economico, lo stato patrimoniale, ecc., e io gli ho spiegato perché il Codice Civile lo regola così: allora questo è un inizio di utilità, è un inizio di intersoggettività.
Un rapporto potente con il mondo del lavoro significa moltiplicare queste occasioni, dar loro una prospettiva più ampia, più di quella che può esserci nella singola ora di lezione di diritto, cioè moltiplicare per “n” le volte in cui questa cosa può succedere.
Questo mi sembra il motivo fondamentale per cui noi dovremmo andare in giro cercando il mondo del lavoro!
Per mestiere faccio anche formazione professionale continua, cioè la formazione delle persone che lavorano in azienda, e una cosa sconvolgente di cui ci si accorge è che chi lavora in azienda ha un sacco di queste occasioni e l’azienda, come soggetto che opera, spessissimo, pur riconoscendo l’esistenza di queste occasioni, non ha l’attitudine educativa a questo, per cui “importa” delle antropologie folli da chissà dove, quando avrebbe -nelle cose che succedono tutti i santi giorni- l’occasione per diventare un’agenzia educativa. Questo secondo me è il vero motivo per cui ad un’impresa converrebbe ricercare il rapporto costante con la scuola, perché questa sarebbe la costante occasione per poter diventare un soggetto educativo non solo per i ragazzi che un domani potrebbero anche diventare suoi dipendenti, ma per allenarsi a fare la stessa cosa con i propri dipendenti, con la gente che in quel momento sta lavorando lì.
Se vogliamo che scocchi la scintilla ci deve essere una differenza di potenziale: finché la scuola è da sola, la scintilla non va da nessuna parte.
Ci vuole un’altro soggetto con il quale fare stabilmente questa cosa qua, altrimenti è soltanto un episodio.