Una recensione? No grazie. Quanto visto al Teatro Carcano di Milano non si può recensire, casomai vivere. Nello spettacolo-musical tratto dal capolavoro di Victor Hugo, “I MiserAbili”, messo in scena da una compagnia teatrale molto particolare giunta alla sua terza fatica dopo “Le Avventure di Gianburrasca” e “La Divina Commedia”, viene forse racchiusa l’essenza del teatro. Un laboratorio nato dall’esperienza d’unione di tre cooperative lombarde che operano nel mondo del sociale e della disabilità e che dal 2005 hanno intrapreso questa sfida unica nel suo genere: Anaconda di Varese, Solidarietà e Servizi di Busto Arsizio, Cura e Riabilitazione di Milano, intraprendono l’impresa di mettere in scena opere, lavorando con attori professionisti, educatori, volontari e sopratutto disabili come protagonisti insieme sul palco. “I MiserAbili” non sono solo la messa in scena di un grande classico della letteratura e del musical teatrale, ma l’occasione di mettere al centro del proprio lavoro il senso ultimo della propria drammatica persona. Non è un errore di battitura quella “A” nel titolo dello spettacolo, è la geniale intuizione di rappresentare quello che in questi anni di preparazione settimanale è accaduto sul palco e nelle prove. Una miseria che diventa abilità e soprattuto un’abilità che impara ad entrare nella miseria della propria condizione. Criptico? No, basta guardarli questi uomini prima di andare in scena, nel momento di massima agitazione per chiunque, anche per delle persone disabili. «Roberto sei agitato?», «Sì, ma lo ero di più le altre volte. E poi il mio personaggio mi piace, ruba i soldi e a me fa ridere»; Roberto è lo spettacolare locandiere Tenardieu, canta e balla reggendo la scena con ironia e senso del palco. È abilità ma non presunzione, per chi è conscio di vivere un “difetto” – come lo definisce il mondo – rispetto ai “normali” e che impara tutti i giorni cosa può riservare la vita da una persona come lui. E poi c’è Michele, il vescovo che col suo perdono gratuito dà inizio alle gesta di Jean Valjean: «ma a me piacciono tutti, quando ero piccolo volevo essere loro, il prete, Javert e il capo dei rivoluzionari francesi». Santità, senso di colpa in cerca di redenzione e furore per le imprese, chi di noi può dire di non avere questo dentro di sé? Quello che colpisce è come attori, educatori e disabili in scena non si confondono affatto in un’unica grande “massa”, ma vengono esaltati nel loro lato più fragile e drammatico al tempo stesso. Miseria, umanità, riscatto e liberazione: è Hugo o la storia di queste persone, di noi? «Io scommetto su di loro e sulla storia perché prima di tutto fa parte di me e ha colpito me», racconta la regista di questi “miseraAbili” Luisa Oneto, con la compagnia fin dal 2005.
Ognuno di noi è miserabile, chi nel corpo e chi nell’animo, con la differenza che noi vogliamo nascondere la miseria e far vedere solo l’abilità, non comprendendo che solo la nostra unità di persona ferita e drammatica interessa chi ci ama per davvero. «Mi sono commossa nel raccontare una miseria, la nostra miseria, ci fa capire quanto abbiamo bisogno di qualcuno che ci ami per quello che siamo». Non avremmo una sete d’amore così grande se non fossimo accolti nella nostra “miserabilità”, e questo traspare dall’attenzione e cura per ogni singolo aspetto dell’intera opera: l’abilità tecnica deriva da questa presa di coscienza iniziale, da quel perdono del vescovo che nella vita prima o poi incontriamo tutti sotto mentite spoglie (un amico, una morosa, un educatore). Da qui la bellezza unitaria de “I MiserAbili”, di un musical e di una recitazione qualitativamente all’altezza del grande palcoscenico, di una scelta nell’intervallare video sullo schermo che approfondiscono e accompagnano la scena. Un’intuizione geniale, e qui l’apporto del regista di immagini Eugenio Bollani è decisivo (la scena nelle fogne di Parigi è girata nelle vere fogne qui a Milano, un realismo che commuove, esattamente come l’incredibile scena del suicidio di Javert con una trovata acuta e intelligente).
Attori ed educatori, in fondo si potrebbe riassumere tutto qui: costantemente ogni personaggio di Hugo è rappresentato in scena da almeno due attori, un disabile e un educatore o attore professionista. Ma qui ciò che stupisce non è la pur interessante domanda su chi sia davvero che sostiene l’altro, no. Stravolge e rivoluziona la realtà quando è unita, dentro le assolute differenze e particolarità di ognuno: non ci sono attori o educatori, ma ci sono delle persone sul palco. «Io non sapevo recitare, ma ho seguito e ho imparato, ora con la mia parola e il mio canto trasmetto qualcosa. Ed educare è portare un altra persona a conoscere qualcosa e non fermarsi mai», racconta Jonathan, un educatore tra i volti prestati a Jean Valjean. Questa unità traspare dai volti di tutte le persone in scena e dietro le quinte: «Per me educare non è mai scisso dal teatro, educare è tirare fuori dal buio qualcosa che nessuno avrebbe mai visto. Teatro è educazione, risveglia l’anima dentro di noi» conclude ancora Luisa Oneto, artefice e partecipe di questa spettacolo. «L’esperienza del teatro ha introdotto per me una novità nel rapporto con i ragazzi, mi ha messo spalle al muro: ho dovuto riconoscere un punto di destino in comune che mi costringe ad essere terribilmente serio con me stesso», raconta Fabio, l’educatore/rivoluzionario francese.
Uno può sforzarsi su tutto per inseguire la bellezza e poi rendersi conto che proprio quella c’è già e ci precede nei volti sofferenti e drammatici che si hanno di fianco: «amare una persona è vedere in volto Dio» si dice al termine nel romanzo e in scena. Beh, se Dio c’è non può che essere in questi volti di persone. Del resto non è una recensione, ma è vita.