L’essere umano, in virtù di una «magica» corrispondenza tra le strutture del suo pensiero e la realtà che lo circonda, appare essere intrinsecamente e costitutivamente tecnologico.
È facile notare quanto le tecnologie ci diventano rapidamente trasparenti, non ci accorgiamo neanche più di farne uso. Quando iniziamo le nostre giornate, accendiamo la luce, ci vestiamo, ci laviamo, usiamo gli utensili e il fuoco. Tutto ciò ci appare come assolutamente naturale. Sarebbe anzi innaturale non averle a disposizione.
Allo stesso modo le nuove tecnologie, passato il breve tempo dello stupore, ci diventano facilmente connaturate. Proprio come un vestito, la tecnologia porta la nostra impronta. Essendo essa una componente intrinseca del modo con cui l’uomo pensa alla vita, possiamo guardare alla tecnologia per capire meglio noi stessi.
È infatti interessante chiedersi: a quale tipo di vita l’uomo tende nel suo impiego della tecnologia?
La naturalità della tecnologia deve per forza tradurre la «naturalità» di un certo concetto di vita. Quale?
Un decalogo della tecnologia buona
È facile trovare innumerevoli esempi di come alcune tecnologie sono considerate indubitabilmente positive. È possibile fare un elenco delle caratteristiche di base che le rendono tali, una specie di decalogo della tecnologia buona.
Ogni trovato tecnologico è considerato universalmente buono se:
Riduce la fatica fisica;
Riduce il dolore;
Allunga la vita;
Riduce i tempi di realizzazione delle attività;
Riduce lo sforzo mentale;
Aumenta le conoscenze;
Produce momenti di interesse e piacere;
Abilita/facilita l’esprimersi;
Permette nuove forme di comunicazione;
Economicizza (conserva la natura, diminuisce gli sprechi, aumenta il benessere).
È impressionante constatare quanto questo decalogo sia universale, indipendente da cultura, censo, età. Di fronte a questo elenco i più provano un senso di ovvietà, qualcuno di sottile inquietudine.
Insita in questo elenco c’è una distinzione tra «vita buona» e «vita da evitare», tra vita auspicabile e vita senza attrattiva, tra vita che vale e vita che non vale.
Anche senza ricadere in esempi estremi legati alla vita e alla morte, è chiaro che tutti vogliamo evitare il mal di denti, le lunghe attese, gli sforzi non coronati da successo. Certo, tutti sappiamo che anche situazioni di insuccesso o di dolore possono portare del valore.
Questa consapevolezza non toglie però l’assoluta preferenza per le situazioni del decalogo.
Il decalogo fotografa uno stato di benessere, fatto di situazioni buone e desiderabili. In questo modo il decalogo esprime una tensione alla felicità.
Il decalogo esprime la nostra idea di felicità?
Chiaramente non si sta parlando della nozione teorica o narrativa della felicità, ma di una idea istintiva e universale di felicità.
Verrà da dire: la felicità è tutt’altra cosa da quanto chiediamo alla tecnologia, che è solo un mezzo. Verrà anche da dire che il decalogo identifica forme parziali di felicità e che l’uomo vuole il benessere che la tecnologia offre per scopi che non compaiono in questo decalogo.
Nonostante questo sia attualmente vero, la crescita tecnologica pone delle domande difficilmente evitabili: se le capacità tecnologiche aumentassero ancora, come viene immaginato in alcuni film o romanzi di fantascienza, questo distinguo tra forme parziali di felicità e scopi veri rimarrebbe intatto?
Se ci fosse un chatterbot così intuitivo e sensuale da far compagnia o addirittura da fare innamorare (come nel film Her), oppure se ci fosse un farmaco che ci toglie la paura della morte (come nel romanzo White Noise di Delillo) o che ci rende intelligenti, contenti e ottimisti (come nel film Limitless), potremmo ancora dire che la felicità è altrove e che il decalogo riguarda solo dei mezzi per ottenerla?
Se potessimo con un farmaco aumentare o indurre l’emozione dell’innamoramento o dello stimare e sentirsi stimati, che differenza ci sarebbe tra l’esperienza «vera» e quella procurata? Come useremmo questo farmaco?
Ci procureremmo queste emozioni come mezzi per «altri fini»?
E come potremmo identificare questi altri fini avendo reso riproducibili e quindi fondamentalmente arbitrarie le emozioni?
Esperienze artificiali
La tecnologia, rimuovendo progressivamente i vincoli alle nostre possibilità, o anche solo dando la prospettiva di una loro rimozione, interroga sulla natura ultima della felicità: la felicità consiste in stati descrivibili?
Gli stati descrivibili, siano essi fatti da condizioni fisiche, capacità, percezioni, emozioni o ragionamenti, possono essere in qualche modo provocati.
Il benessere, la disponibilità di mezzi, la combinazione delle tecnologie consentono nuove esperienze.
Ci sono scienziati che passano la gran parte del loro tempo a osservare cose inaccessibili all’occhio nudo. Ci sono tecnici che spendono il loro tempo analizzando le immagini che vengono da satelliti, dove nessun uomo potrebbe arrivare. Ci sono creativi che vivono la gran parte della loro giornata all’interno di spazi e in trame di fenomeni inventati dall’immaginazione umana. Se ci trasportiamo sul pinnacolo di un’alta torre in un grande deserto mediante visori 360° 3D, avendo riprodotto la qualità dell’aria, il vento, la temperatura, i rumori, creiamo delle emozioni, anche profonde.
Il fatto che queste esperienze siano artificiali in quanto essenzialmente dipendenti dalla tecnologia, le rende di poca importanza, poco significative?
Il replicante Roy Batte di Blade Runner (1982) non la pensava così nel suo famoso monologo: «Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi C balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser».
È possibile che esperienze fuori dalla portata conoscitiva naturale, o addirittura immaginarie, e accessibili solo in modo virtuale possano essere profondamente significative per la nostra vita?
Al contempo, l’avere raggiunto così tanti obiettivi che un secolo fa sembravano sogni di un visionario, ha aumentato l’irresistibile attrattiva e la forza del progresso tecnologico, ma ha anche messo in evidenza la strutturale insufficienza insita in molti di quei sogni.
Volevamo poter viaggiare ovunque e conoscere tutto il mondo. Adesso possiamo. Pianifichiamo vacanze e viaggi per visitare luoghi di grande bellezza e interesse che un tempo sarebbero stati impensabili. In passato la scoperta geografica era uno scopo di vita, ora è intrattenimento. Volevamo poter comunicare e conoscere ogni cultura e ogni uomo. Adesso possiamo. Possiamo comunicare quasi con chiunque. Le persone importanti, così come ogni guru, re o santo, sono alla nostra portata. Ogni notizia viene scrutinata. Ogni linguaggio è tradotto. Di ogni persona o cultura anche enormemente distante conosciamo fin da subito caratteristiche e limiti. Volevamo poter guarire dalle malattie. Ora moltissime malattie un tempo mortali sono guaribili e molti dolori alleviabili. La vita si è allungata e il dolore è diminuito, ma la morte è diventata ancor più insormontabile.
Lo sviluppo della scienza e della tecnologia ha modificato la forma del desiderio degli uomini?
Quanto la tecnologia ha reso l’uomo antico e l’uomo contemporaneo diversi nel loro assetto fondamentale di desiderio, soddisfazione, ricerca della realizzazione di sé?
Infine, è palese quanto lo sviluppo tecnologico abbia creato capacità e abitudini di cui è molto difficile fare a meno. Le comunicazioni, i farmaci, la grande distribuzione, per fare alcuni pochi esempi evidenti, creano condizioni da cui all’uomo è praticamente e psicologicamente impossibile allontanarsi.
Essere dipendenti della tecnologia, fosse anche dall’uso del frigorifero, ci toglie qualcosa di fondamentale? La tecnologia ci ha emancipato da innumerevoli vincoli, fatiche e limitazioni.
Si tratta di una situazione che aumenta o diminuisce la nostra capacità di riconoscere ciò che c’è di più importante nella vita?
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Tommaso Bellini
(Professore di Fisica Applicata all’Università degli Studi di Milano)
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