Caro direttore,
sono in corso a Milano in queste settimane incontri tra persone di orientamento diverso in vista delle elezioni a sindaco del prossimo anno. Sono stato ad alcuni di questi incontri: Gallera, Lupi, Passera… Né centrodestra né centrosinistra sono riusciti ancora a trovare (o a designare, nel caso di Giuseppe Sala) un proprio candidato. Anche il mondo cattolico non riesce ad esprimere una (che sia una) personalità. Ciò che mi fa specie è che in questa ricerca del candidato, a latitare sia la questione di come affrontare la disaffezione alla politica, l’anti-politica che tiene distanti dal voto quasi il 50 per cento degli elettori. E’ ben strano che quella che è stata definita come la forma più alta di carità sia dai più sentita come “cosa sporca”.
Si è preoccupati di far vincere il proprio candidato o far vincere il proprio schieramento e poi di riformare la politica: ma questo non è certo realismo. A che servirebbe prendere il potere se poi non si sa neppure cosa sia il bene comune, così come la casta attuale sta ampiamente dando dimostrazione?
Il primo fattore di crisi del rapporto fra eletti ed elettori è il verticismo, la logica con cui, nel trascorso ventennio, si è operata la selezione dall’alto della classe dirigente da parte delle segreterie di partito. Il contenuto vero di questa impostazione verticistica è che l’idea di bene comune sfugge alla sua vera dimensione, la politica è distaccata dal popolo e il potere politico aumenta la sua pretesa di essere il luogo del bene comune, ovvero il luogo che fa l’economia, il lavoro, l’educazione. Tanti cattolici sostengono che bisogna ricostituire il centro destra. E anch’io mi dico che occorre essere alternativi alla sinistra.
Ma, caro direttore, come si fa a riconoscersi nelle sparate di un Salvini o pensare che la novità venga da una Forza Italia che è a pezzi e senz’anima o in un Ncd fluttuante tra Renzi e il nulla di proposta politica? Di recente anche Giovanardi ha lasciato Ncd, ma la cosa più grave è il modo di pensare di tanti nel mondo cattolico: tornare al vecchio centrodestra per non morire renziani. Sic! Ma sarà quello il loro destino se non si supera il dualismo tra logica del potere ed esperienza di popolo, tra il cinismo dei rapporti di forza e positività ultima del reale.
Mi hanno dato del sognatore, ma sono in buona compagnia. A quelli che dicono che il potere innanzitutto definisce il realismo in politica e non invece un giudizio, ecco cosa rispondere: “A che giova accendere una piccola candela nel buio che ci circonda? Non sarebbe ben altro ciò di cui c’è bisogno per diradare l’oscurità? In certe stagioni della vita simili interrogativi si impongono. Di fronte alle esigenze dell’esistenza, la tentazione porta a tirarsi indietro, a disertare e a chiudersi, magari in nome della prudenza e del realismo, fuggendo così la responsabilità di fare fino in fondo la propria parte”. Lo dice papa Francesco.
Il dualismo è cecità perché non capisce che ricostituire la politica è necessario tanto quanto prendere il potere, che prendere il potere ha senso insieme al lavoro e al giudizio che si deve muovere dal basso, dalla gente, dalle buone prassi e virtù del vivere civile. Il dualismo fa prevalere una visione negativa, pessimistica, perché muove da una reattività pura: quella che inevitabilmente antepone il potere al suo scopo, che è il servizio a qualcosa e a qualcuno.