Sono davvero tempi interessanti quelli che stiamo vivendo, perché mai tante sfide si sono sommate e accavallate tanto rapidamente da non riuscire a trovare risposte anche quando sembra che la soluzione sia a portata di mano. Frequentiamo un mondo assai diverso da quello che abbiamo conosciuto anche nel recente passato – siamo in terra incognita direbbe il presidente della Bce Mario Draghi – e infatti le ricette che credevamo buone non servono a cucinare i piatti di oggi.
E oggi più di ieri il rischio di restare intrappolati nelle pratiche di economisti morti – per parafrasare un campione del cambiamento come Keynes – è tanto forte quanto invece dovrebbe essere la capacità opposta di innovare nel pensiero e nelle azioni trovando il coraggio di affrontare percorsi inesplorati. La posta in palio è così alta che occorrono giocatori di primo livello, i migliori da poter mettere in campo in un’ipotetica squadra che dovesse impegnarsi nel campionato del futuro.
La quarta rivoluzione industriale – caratterizzata da cose intelligenti e interconnesse – è molto più pervasiva e spiazzante e sfidante di quanto si possa immaginare. L’impatto sulla società e le sue varie componenti delle sofisticate tecnologie in grado di sostituire gran parte del lavoro umano migliorandone prestazioni e risultati sarà così potente da scombussolare ogni equilibrio fin qui sperimentato. Non si tratta di una semplice evoluzione, ma di un rivolgimento radicale.
Attardarsi a contemplare gli schemi di ieri e non accorgersi che sono diventati all’improvviso vecchi e inutilizzabili è il rischio che dovremmo evitare di correre mentre i nostri concorrenti (magari non tutti, ma una buona parte sì) si sintonizzano sulle frequenze della nuova era. Per eliminare il senso d’inadeguatezza che i più avvertiti colgono occorre accettare la realtà cominciando con lo scansare i riti che non hanno più senso economico e culturale.
La modernità imposta dall’avvento dell’Industria 4.0, per quanto cruda, è un dato di fatto che richiede una nuova gamma di comportamenti non solo in fabbrica, ma anche nelle relazioni individuali e collettive. Prima ci affretteremo a prenderne atto meglio sarà per mettere in sicurezza il nostro potenziale produttivo e la capacità di competere e creare ricchezza che resta alla base del benessere delle nazioni che non vogliano imboccare la strada del declino (mai felice).
Ecco perché fa male e preoccupa osservare un Paese ancora ricco e pieno di risorse come il nostro, considerato all’estero come un temibile concorrente per la bontà dei suoi prodotti, girare intorno ai problemi anziché affrontarli con l’energia che serve. Ci vorrebbe uno scatto comune di consapevolezza perché la mutazione che stiamo vivendo non si riduca alla conta dei vinti e dei vincitori, ma possa distribuire al maggior numero possibile di attori i vantaggi che può portare.
Ma la politica e il sindacato, la burocrazia e le professioni, le banche e le imprese – il tutto con le dovute eccezioni – piangono e rimpiangono formule che non riescono più a incantare. Dai rapporti con l’Europa al caso Alitalia, dagli investimenti in infrastrutture alle scelte di politica economica, dallo svecchiamento delle pratiche amministrative al tempo che passa dalle parole ai fatti, perfino da come impareremo a raccontarci potremo misurare la nostra adeguatezza ai tempi.