Qualcosa dev’essere davvero cambiato nella narrazione del Mezzogiorno se anche il comunicato ufficiale del summit dei ministri finanziari e dei banchieri centrali dei principali Paesi, riuniti a Bari in preparazione del G7 di Taormina con l’esordio del presidente americano Donald Trump, è stato concepito per dare risalto alle eccellenze industriali del territorio.
D’altra parte già l’autorevole rapporto della Fondazione La Malfa, costruito su dati di Mediobanca, avverte da qualche anno la comunità scientifica e quella politica che esistono al Sud realtà produttive che non hanno niente da invidiare a quelle del Nord e che, anzi, prese singolarmente rappresentano dei veri e propri campioni nazionali e internazionali. Anche se lo schema del racconto premia ancora settori e filiere – automotive, aerospazio, abbigliamento, agroalimentare, farmaceutica tanto per elencare i comparti più citati -, la verità è che oggi la fortuna economica di un’azienda si misura sulla sua capacità di stare sul mercato a prescindere dal ramo di appartenenza e anche dalla localizzazione geografica.
La capacità d’intraprendere, d’innovare, di organizzarsi in maniera moderna, di gettare uno sguardo sul mondo, in una parola di competere, appartiene con sempre maggiore evidenza al singolo imprenditore e forse sarebbe meglio dire alla singola unità imprenditoriale della quale fanno parte la squadra dei dirigenti, tutti i lavoratori, i sindacati, i fornitori. La partita, cioè, si gioca nella fabbrica. Ed è per questo che aziende simili e in una stessa area si trovano a vivere destini diversi: di successo in qualche caso, di sconfitta il più delle volte. L’impresa che vince si differenzia dall’impresa che perde per la qualità dei suoi fattori e per l’abilità con la quale questi stessi sono combinati da chi ne ha la responsabilità.
Nulla di nuovo, si potrebbe dire, dal momento che questa è la teoria. Molto di nuovo, si potrebbe aggiungere, perché raramente la teoria aveva trovato evidenza in questo campo per le distorsioni dovute all’eccesso dirigismo da parte di una politica che intendeva mettere bocca e regolare l’andamento degli affari nella presunzione di saperne più del mercato. La caduta dell’intervento statale, che pure molti danni ha provocato per come (non) è stata gestita, sta modificando il palcoscenico dell’economia facendo emergere meriti e demeriti dei diversi attori sulla scena. Chi è più bravo oggi ha la possibilità di dimostrarlo e chi fa opinione non può che riconoscerlo aprendo la strada anche da noi all’apprezzamento del merito.
Anche per questo comincia a notarsi con evidenza imbarazzante quanto sia insufficiente l’azione e inadeguato il personale di una Pubblica amministrazione più preoccupata di sopravvivere a se stessa che di partecipare alla grande sfida di moltiplicare i centri di creazione della ricchezza per procurare più occupazione e in definitiva più benessere.