Il 26 ottobre l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha inaugurato la stagione sinfonica 2013-2014 con la presentazione in forma di concerto dell’opera Peter Grimes di Benjamin Britten – doveroso omaggio al centenario della nascita di uno dei maggiori compositori del Novecento- secondo www.operbase.com , il maggior sito di musica lirica, Britten è il tredicesimo compositore più rappresentato al mondo ed il secondo, dopo Händel in Gran Bretagna.
Per mera coincidenza l’intera giornata del 25 ottobre e la mattina del 26, si è svolto alla Facoltà di Lettere dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma un importante convegno, in memoria di Pierluigi Petrobelli sul tema ‘Giuseppe Verdi, dalla musica alla messa in scena’; le analisi presentate ed il dibattito si addicono ancora in più a Benjamin Britten il quale – come ho sottolineato in un saggio apparso nel’ultimo fascicolo del 2012 de La Nuova Antologia – dedicò gran parte della propria vita e del proprio lavoro ad individuare nuove forme di teatro in musica per il Novecento, ed i secoli successivi, nella convizione che la forme ottocentesche e della prima metà del ventesimo secolo, non fossero più ‘sostenibili’ in epoca di accresciuta concorrenza di altre forme di spettacolo (cinema, televisione) e di aumento dei costi reali per maestranze tecniche ed artistiche. Occorre, quindi, chiedersi quando sia appropriato presentare Peter Grimes in forma di concerto, tanto più che il lavoro manca da Roma da decenni. Una delle conclusioni del convegno è che sino al 1920 , o giù di lì, nel teatro in musica c’è stato un certo equilibrio tra azione scenica e sviluppo drammaturgico, ma da allora alla metà degli Anni Settanta, la diffusione della radio, prima, e della musica registrata hanno dato un primato dalla parte musicale; da quaranta anni, il ‘teatro di regia’ sta in vari modi ristabilendo l’equilibrio iniziale. E’ una delle ragioni per cui nel Nord America, in Nord Europa, in Germania ed in molti Paesi dell’Est il pubblico si rinnova; i giovani affollano i teatri d’opera mentre disertano quelli italiani.
Peter Grimes è il primo dramma in musica che nel 1945 impose Britten all’attenzione mondiale. Nel 1945 “Grimes” era rivolto al futuro: sviscerava temi nuovi (solitudine, ambiguità sessuale) con soluzioni musicali nuove proprio perché eclettiche ed in cui per la prima volta dai tempi di Purcell sfruttava tutta la musicalità della lingua inglese. Tratto da una novella inglese, in versi, del tardo Settecento con un libretto di Montagu Slater e la musica di Britten, è “British” dall’inizio alla fine, nonostante rappresenti una rivoluzione che nel 1945 ha inciso profondamente sul teatro in musica della seconda metà del Novecento. C’è senza dubbio una ricerca volta a snellire l’organico ma lo si sfoltisce soltanto rispetto a quello tradizionale dell’opera lirica. In “Grimes” non c’è happy ending: il protagonista (innocente dei crimini di cui è accusato) viene indotto al suicidio in mare mentre il borgo torna tranquillo (ora che il “diverso” non c’è più) alle sue occupazioni di sempre. Non manca , però, un velo di pietà cristiana nei confronti del “diverso”. La scarna vicenda di solitudine e incomprensione è arricchita non solo da un testo stringato ed efficace ma da una partitura ricchissima: sei “interludi marini” separano le varie scene e la vocalità alterna declamato con ariosi di grande lirismo e concertati polifonici di spessore (sia a quattro voci femminili sia di tutta la compagnia).
Nell’edizione originale, l’opera ha un organico orchestrale contenuto e non richiede che un piccolo coro ed una quindicina di solisti, in gran misura in ruoli secondari per dare vita al cicaleccio del borgo marinaro del Suffolk, gretto e pettegolo, ma soprattutto incapace (tranne la maestra di scuola Ellen) di comprendere il dramma dell’esclusione sociale progressiva del protagonista. Ebbe- come si è detto- la ‘prima’ al Sadler’s Wells poiché ritenuto più simile a Porgy and Bess di George Gershwin che all’opera in senso stretto ma, dopo l’esecuzione, venne salutata come il segno del riscatto del teatro musicale inglese e, nel giro, di pochi anni rappresentata in tutto il mondo principalmente in lingua originale. Il suo stile musicale eclettico non rifiuta mai la scrittura tonale ed è accattivante anche per chi non ha dimestichezza con le convenzioni della musica del Novecento: pur continuando nella grande tradizione britannica iniziata con Purcell, fa propria (nel teatro in musica) la tecnica di Berg di adottare la forma di un tema su cui costruire ciascuna scena inserendo molteplici variazioni, e intercalando le varie scene con intermezzi indipendenti che servano da elementi di unificazione musicale e drammatica. Altro aspetto fondante è la capacità di ottenere il massimo colore e calore orchestrale con il minimo di organico.
E’ doveroso dire che negli anni l’organico e coro sono stati ampliati dallo stesso Britten man mano che il dramma in musica diventava ‘popolare’ in teatri di grandi dimensioni. A riguardo, interessante confrontare la registrazione Decca del 1958 con Britten sul podio e quella EMI del 1992 con Bernard Haitikin, ambedue con i complessi della Royal Opera House al Covent Garden: organico orchestrale e corale sono molto differenti; la registrazione del 1958 ha un’impostazione lirica mentre quella del 1992 ne ha una epica.
Ho avuto la fortuna di vederne due edizioni sceniche nell’ultimo decennio: a Firenze nel 2003, con la direzione musicale di Seji Ozawa, la regia di David Kneuss e Philp Langrige nel ruolo del protagonista, ed alla Scala, nel giugno 2012, concertata da Robin Ticciati, allestita da Richard Jones e con John-Graham Hall nella parte di Grimes. Due esecuzioni di grandissimo livello. Nella prima, il mare era costantemente presente nell’allestimento scenico (come è d’uopo) mentre nella seconda, il giovane Ticciati estraeva dall’orchestra della Scala sonorità di grandissimo livello, specialmente negli interludi.
L’edizione in forma di concerto concertata da Antonio Pappano è, se si vuole, più epica che lirica. In ciò pare quasi costretta dalla mancanza di azione drammatica, di scene , di costumi e dall’affidare unicamente a orchestra e coro (ambedue di vastissime proporzioni) la presenza continua del mare (purtroppo assente dal palcoscenico della Scala nel 2012) . Con i solisti sul proscenio, inoltre, Pappano ha accentuato sonorità di coro ed orchestra traendo effetti acustici mirabili (anche se non sempre in linea con la partitura originale di Britten); in breve, un’interpretazione personalissima in cui il protagonista giganteggia rispetto ai borghigiani all’aria di apertura Now the Great Bear and Pleiades al grandioso arioso finale What Harbour Shelters Peace. Gregory Kunde (vi ricordate quando nel 1992 entusiasmò il Rossini Opera Festival come giovane tenore lirico di coloratura in Armida) ha gestito molto bene l’evoluzione, nel corso degli anni, della propria voce ed è ora un bari-tenore di altissimo livello; al debutto nel ruolo, da al personaggio anche richiami belcantistici della prima fase della sua carriera. Anche Sally Matthews (Ellen) debuttava nel ruolo e viene principalmente da interpretazioni da soprano lirico.
Ha dato un tono molto dolce alla maestrina vedova, unico personaggio che, come si è detto, davvero tenta di comprendere Grimes. Ottimi tutti gli altri, in gran parte veterani dei rispettivi personaggi (Alan Opie, Susan Bickley, Elena Xanthoudakis, Simona Mihai, Michael Colvin, Matthew Best, Harry Nicol , Roderick Williams, Darren Jeffrey, Gabriella Martellacci, Marco Santarelli). Si distingue tra tutti Felicity Palmer che a settanta anni per eleganza e vocalità è sempre giovanissima.
Torniamo agli interrogativi iniziali. In forma di concerto, Peter Grimes non è il ‘nuovo’ dramma in musica quale inteso da Britten ma una grande sinfonia in più parti; specialmente nella prima parte (prologo e primo atto) i solisti sembravano imprigionati nel boccascena, mentre nella seconda (secondo e terzo atto) c’erano segni di mise en éspace (ossia di azione).
Grande successo . Ma occorre dire che almeno due terzi del pubblico erano per la prima volta alle prese con Peter Grimes.