L’università del Cairo è lontana. Un ricordo distante migliaia di chilometri e decine di anni. Ora Moussa Medhat è diventato per tutti Antonio, il panettiere di viale Monza. “Ho lasciato l’Egitto quando avevo 23 anni. Mi ero appena laureato in Storia e Geografia e volevo diventare un insegnante. Ma in una vacanza in Spagna ho conosciuto una ragazza milanese e mi sono innamorato. Così la mia vita è cambiata…”.
Era il 1986. Per un anno Moussa Medhat, in arte Antonio, e la sua futura moglie si frequentano a distanza. Lei lo viene a trovare al Cairo due volte, ma non si trova bene. “Diceva che l’Egitto era più caotico di Napoli”, scherza oggi Antonio.
Così Medhat capisce che se vuole coltivare questa storia d’amore, dovrà essere lui a partire alla volta dell’Italia. Si decide finalmente nel 1987. “Sono arrivato a Milano e ho cominciato a lavorare da imbianchino. Tre mesi, poi ho letto un cartello fuori da un panificio in piazzale Istria, dove c’era scritto che cercavano personale. Ho provato, è andata bene e così ho cambiato lavoro”.
Per la cronaca, quella panetteria si chiamava Princi. Era il primo negozio aperto da quello che sarebbe diventato il re dei panificatori della città. “Lì ho imparato il mestiere e ho capito cosa vuol dire avere una mentalità da imprenditore – racconta Medhat -. Princi capì con anni di anticipo quale sarebbe stato il futuro del settore e cominciò a produrre tutto in proprio, puntando sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Una scelta vincente, che ho ripreso quando ho aperto la mia attività”.
Cioè dopo dieci anni e tre panifici girati da dipendente. Nel 1997, infatti, Medhat decide che è ora di mettersi in proprio. “Sentivo di non essere completamente soddisfatto. Avevo bisogno di qualcosa di mio, dove poter apportare le mie idee e spendere appieno la mia passione in autonomia”.
Così Antonio si attiva per avere i permessi. “Ai tempi le licenze erano ancora bloccate. Bisognava comprarsele. Io pagai la mia un’esagerazione: 230 milioni di lire. Tanto, ma se pensiamo che in Egitto a un cristiano come me probabilmente non avrebbero neanche permesso di aprire, non posso che essere felice”.
A distanza di tempo Medhat può dire che ne è valsa la pena. Oggi è proprietario di un panificio e di una rivendita. Il negozio sta aperto fino alle due di notte e ha un fatturato che si aggira intorno ai 500mila euro annui. Ci lavorano nove dipendenti di nazionalità diverse (italiani, ma anche salvadoregni e romeni). “Sono orgoglioso del fatto che la mia attività permette a nove famiglie di vivere tranquille. Purtroppo mi costa anche, perché con il mercato attuale mi converrebbe chiudere prima la sera. Così però dovrei licenziare qualcuno e non voglio farlo”. Antonio non è solo un imprenditore, ma anche un padre di famiglia con quattro figli a carico. Sa cosa vorrebbe dire per un papà perdere il lavoro oggi, in tempi di crisi e preferisce piuttosto rimetterci qualche soldino. Anche perché gli affari vanno comunque bene. E i clienti sono molti, italiani e non.
“L’inizio però è stato difficile. Dovevo vincere la concorrenza di un collega italiano che aveva il negozio vicino al mio. E lui puntava sul fatto che i milanesi non si sarebbero fidati del pane cotto da un egiziano”. Più che di razzismo si tratta di diffidenza. “Il pane lo sanno fare gli italiani”, è un po’ il motto silente. “Purtroppo è vero. Se per esempio dietro al bancone ci sono commesse di colore, gli affari diminuiscono. L’ho vissuto sulla pelle di un amico. Perché la gente se non ti conosce non si fida del tuo prodotto. Ma se lo prova ed è buono, allora le barriere cadono”.
Come fare allora per farsi conoscere? “Io ho contattato un amico che si occupa di comunicazione. Grazie a lui ho aperto il mio sito Internet e ho fatto stampare e distribuire volantini con la mia faccia per farmi conoscere dalla gente del quartiere e farmi sentire parte di loro”. La mossa funziona e le sue focacce diventano un must in viale Monza. “È qui che tutti hanno cominciato a chiamarmi Antonio”, ride contento.
Non è però tutto rose e fiori. C’è da sudare nel forno e a volte manca il tempo per stare in famiglia. E poi ci sono le tasse. Troppe tasse. “Ne abbiamo discusso proprio ora con il presidente dell’associazione dei Panificatori. E non sono l’unico problema della categoria. Siamo presi di mira dall’Annonaria, che, mi spiace dirlo, ma spesso agisce con fare prepotente. E questi studi di settore poi: assurdi”.
Ok, Medhat. Meglio l’Egitto? “No, stiamo scherzando? Mi mancano tante cose del mio paese, ma l’Italia ormai è casa mia. Ho tutto qui e mi piace. Non tornerei mai indietro”.