Esistono due fatti che appartengono all’esperienza basilare di quasi tutti. Da una parte, il linguaggio appare come una esperienza universale, elementare, così fondamentale e costitutiva dell’essere umano da essere in grado di definirlo: l’essere umano è l’essere che ha la capacità di un linguaggio. Dall’altra il sorprendente riconoscimento della diversità dei linguaggi: la irriducibile esperienza di quello particolare, di quello regolato, di quello caotico. Ovviamente, ci sono anche notevoli differenze nella capacità espressiva degli individui, specialmente nel numero delle parole conosciute, ma ciò è trascurabile in paragone alla sostanziale condivisione dell’immensa complessità del codice linguistico da parte di tutti gli esseri umani. Per esempio possiamo considerare il sistema della declinazione dei verbi o la quasi insormontabile difficoltà di dare un significato esplicito alle parole di uso comune, come nel caso molto semplice della parola «forse». Non è sicuramente una parola strana, ma definire il suo significato è una impresa estremamente complessa, che richiede calcoli e sofisticati modelli formali. Linguaggio e linguaggi: la ricerca di riconciliare questi due fatti è stata forse una delle più importanti motivazione della storia della linguistica; certamente è ciò che oggi rappresenta la sfida più importante nella comprensione della natura della mente, e, in ultima analisi, degli esseri umani. A che punto siamo oggi sulla ricerca degli universali linguistici? Facciamo un passo indietro.
L’universalità delle forme linguistiche
Ruggero Bacone (1214-1294), il monaco francescano conosciuto dai suoi contemporanei come Doctor Mirabilis, uno dei più grandi filosofi del medio evo, sintetizzò in modo non equivoco l’universalità delle forme linguistiche: «La grammatica è una e una sola in tutti i linguaggi, secondo i loro fondamenti, anche se ci possono essere variazioni accidentali». Questa conclusione, letteralmente dedotta dall’ipotesi – garantita dal versante teologico – di una sostanziale simmetria tra percezione, linguaggio e realtà, non potrebbe essere in contrasto in modo più netto con quella di Martin Joos (1907-1978), un linguista americano, che sintetizza in modo corretto la convinzione dominante nella metà del secolo scorso: «I linguaggi possono differire l’uno dall’altro senza limiti, e in modo imprevedibile» Anche questa fu una deduzione ideologica, per così dire; cioè sostanzialmente fondata su un pregiudizio teorico, precisamente che un linguaggio sia, in tutti i suoi aspetti, una convenzione puramente arbitraria.
Recentemente si è dimostrato che questa visione caotica è falsa, sia dal punto di vista formale [1,2,3], sia da quello neurofisiologico [4]. Nondimeno, a parte la mancanza di lavori sperimentali che la renderebbero plausibile, è interessante notare come questa visione fu ben accetta a motivo della difesa del relativismo epistemologico che essa implicava , e fu perfettamente adatta per giustificare una visione tecnologica della mente che oggi sembra ritornare formulata come «scoperta biologica». In aggiunta, lo sforzo per una riduzione delle capacità cognitive a meccanismi formali che sono essenzialmente predicabili una volta che sono state definite le condizioni al contorno – un’idea una volta chiamata «cibernetica», e che ora resiste, anche se con una perdita di popolarità, con l’etichetta di «intelligenza artificiale» – fu anche sostenuto da una mobilitazione di finanziamenti e di pubblica opinione che costituì di fatto un modo per riciclare le esperienze accumulate nel settore delle comunicazioni militari durante la seconda guerra mondiale.
In questo caso c’è anche una testimonianza diretta che credo possa chiarire più di ogni altra elucubrazione. Quelli che parlano sono logici e matematici di grande fama, che provengono dai laboratori di elettronica di una delle più prestigiose università tecnologiche degli Stati Uniti, il Massachusetts Institute of Technology (MIT): «C’era nel laboratorio l’idea generalmente condivisa e irresistibile che con la nuova conoscenza della cibernetica e con le recenti tecniche n ella teoria dell’informazione si era giunti all’ultimo passo verso la completa comprensione della complessità delle comunicazione fra gli esseri viventi e tra le macchine»[5]. Fu precisamente al MIT che, anche come reazione a questo riduzionismo, Noam Chomsky (1928-…) mostrò, usando un modello matematico, che nessuno degli algoritmi conosciuti poteva generare automaticamente una struttura complessa come quella del linguaggio umano.
Con ciò, Chomsky riconobbe immediatamente che il fondamento del linguaggio umano è costituito dalla capacità di manipolare elementi primordiali (parole) producendo strutture (frasi) potenzialmente infinite seguendo schemi che sono scoperti proprio come sono scoperte le leggi fisiche, tradizionalmente noti come sintassi. La manifestazione di una infinità sulla base di elementi finiti – cioè sintassi – può essere classificata come il tratto distintivo di tutti i linguaggi umani, e perciò anche del linguaggio.
Questa scoperta ha di fatto completamente cambiato, non solo lo stato della linguistica, ma anche quello della neuroscienza in generale, riponendo il linguaggio al centro delle ricerche empiriche e in molti casi facendo del linguaggio il modello per lo studio di altre capacità cognitive, come quelle correlate alla matematica e alla musica. Esistono almeno tre importanti conseguenze che seguono da questa prima intuizione. La prima conseguenza deriva direttamente da Chomsky e può essere immediatamente compresa dalla lettura della seguente citazione: «Il fatto che tutti i bambini normali acquistano grammatiche paragonabili di grande complessità con notevole facilità suggerisce che gli esseri umani sono in qualche modo progettati per questa attività, con una capacità di elaborare dati e formulare ipotesi di natura e complessità sconosciute»[7]. La seconda conseguenza è in qualche modo implicita nella prima: se l’uomo è progettato in modo speciale, questa struttura deve in qual che modo essere stabilita biologicamente, e così dovrebbe essere possibile risalire agli elementi neurobiologici ai quali essi sono correlati; questi elementi non possono che essere universali come universali sono tutte le caratteristiche biologiche degli esseri umani. Tale intuizione, basata su dati osservativi di tipo comparativo, è stata verificata in modo sostanziale nell’ultima decade da esperimenti radicalmente innovativi eseguiti usando tecniche di neuroimmagine. Il fondamento clinico che da sempre ha costituito la via principale per lo studio dei fondamenti biologici del linguaggio (vedi per esempio il classico lavoro di Lennerberg (1921-1975)[8] ), è in realtà ora integrato da nuovi metodi che evitano la necessità di procedere solo in presenza di patologie.
I confini di Babele
Gli universali linguistici, almeno quelli relativi alla sintassi, devono in qualche modo essere fatti risalire alla struttura funzionale e neuroanatomica del cervello, dando nuova voce alle intuizioni abbandonate così facilmente nella interpretazione convenzionalista del linguaggio nella prima metà del secolo scorso. I confini di Babele, non solo esistono, ma essi possono anche essere scoperti nella nostra carne prima di ogni singola esperienza: non sono l’effetto di una convenzione arbitraria [4]a.
Infine, la terza conseguenza consiste nel riconoscimento che questo modello linguistico, basato sulla capacità di costruire infinite strutture a partire da un insieme finito di elementi, è una unicità della specie umana. Certamente tutti gli esseri viventi comunicano, ma solo gli esseri umani hanno la capacità di produrre strutture potenzialmente infinite. Nonostante qualche sorprendente resistenza, che questo sia lo stato della questione è noto almeno a partire dagli anni settanta del secolo scorso [10]. Questa convinzione è tale, per chiunque studi la struttura dei codici di comunicazione, che è stata l’oggetto di una assemblea plenaria dell’Associazione Americana di Linguistica [11], e anche che, come è facile immaginare, ha un carattere definitivamente ecumenico.
Questa caratteristica di unicità, associata con la proprietà di produrre strutture potenzialmente infinite, ha a sua volta una conseguenza fondamentale che non può essere ignorata in ogni congettura sull’evoluzione del linguaggio, o meglio sulla sua filogenesi. In realtà, deve essere chiaro che, essendo la capacità di produrre strutture potenzialmente infinite un carattere specifico della comunicazione umana, è teoricamente inammissibile che esista una differenza graduale di queste caratteristiche tra le specie animali: l’infinito, in verità, o è completamente tale, o non lo è per nulla. Non si può proprio avere una porzione di infinità. Perciò, non possono esserci linguaggi simili al linguaggio umano, perché ogni insieme finito, per ampio che sia, non può essere simile all’infinità. Infine, un’altra caratteristica del relativismo linguistico, non basata su regole, ma sull’inventario delle parole: negli anni cinquanta del secolo scorso un’ipotesi prese forma canonica (che in modo più o meno esplicito era già circolata per un certo tempo), precisamente l’idea che differenti linguaggi corrispondono a diverse visioni del mondo dovute ai differenti vocabolari che ciascun linguaggio possiede ( la cosiddetta ipotesi Sapir-Work).
Misurare la visione del mondo
Attenzione: ci sono non solo modalità che sono più o meno efficaci nell’agire nel mondo – è così ovvio come stabilire che chiunque tenti di impadronirsi di una qualunque tecnica debba nello stesso tempo acquisirne il linguaggio base – ma ci sono anche vere e reali differenti percezioni sensoriali. Non è difficile comprendere come, al di là di questa incarnazione del relativismo, si nascondeva il tentativo, più o meno esplicito, di fornire una gradazione di merito fra differenti linguaggi, come se alcuni di essi fossero più adatti alla percezione della realtà. È chiaro, per esempio, che in un linguaggio come il tedesco, dove la costruzione di parole composte è molto più frequente che in italiano, si è più esperti nel costruire nuovi termini adeguati che permettono di evitare perifrasi e parafrasi, ma da questo dire che chiunque parla tedesco vede una radio (o un crepuscolo) in modo diverso da qualcuno che invece parla italiano è un inaccettabile salto logico.
Ciò implica che, al di là di qualsiasi giudizio etico, questa ipotesi semplicemente fallisce nel riprodurre i dati osservati. Nello stesso tempo, avere una misura per la visione del mondo non è possibile: non esiste neanche in teoria una metrica che ci permetta di comprendere se chi parla italiano o chi parla tagalog percepisca il modo in modi differenti. Sarebbe necessario prima di tutto raggiungere un accordo su ciò che realmente significa «visione del mondo». Ma nei pochi casi in cui è accettabile eseguire un esperimento, esso mostra che la visione del mondo non cambia variando il linguaggio; se c’è qualcosa che può cambiare è l’interazione con il mondo. L’esempio della ricerca sui nomi dei colori è paradigmatico in questo senso. La gente chiamata a distinguere differenti colori tracciati su una superficie (senza dargli un nome) non agisce in modi differenti: la percezione rimane la stessa anche se il dizionario cambia.
Ma facciamo notare che anche questa visione universalista ha dei rischi di riduzionismo. Non possiamo dimenticare che lo studio scientifico della sintassi è nato nella seconda metà del secolo scorso unicamente per fornire una descrizione del grado di variazione della classe dei linguaggi umani. La previsione di come e ciò che un individuo può dire a un dato momento, in un dato contesto, al di fuori dei casi banali, non osa entrare nei programmi di ricerca, né essere considerata in modo quantitativo, né dal punto di vista neurofisiologico, né a livello molecolare: la creatività linguistica non è meno vera per questa ragione, ma esattamente come nel caso della coscienza, non è misurabile in termini quantitativi.
Questa non è una rassegnazione nichilista tipica del pensiero debole, tuttavia, proprio come non fu una rassegnazione nichilista la decisione di Newton di descrivere la gravità come una azione a distanza, rifiutando la meccanica dell’azione a contatto di Descartes che costituiva a quel tempo l’ortodossia. È una conseguenza sorprendente che Chomsky riferisce precisamente a Descartes quando definisce la capacità fondamentale del linguaggio umano – quella di comprendere e produrre un insieme infinito di frasi – e che allora riconosce che nel nocciolo più profondo del linguaggio giace il misterob.
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Andrea Moro
(Scuola Superiore Universitaria IUSS -Pavia)
Note
- La tecnica scelta per investigare il cervello negli esperimenti qui descritti è la cosiddetta tecnica delle neuroimmagini: in pratica, lo studio delle attività metaboliche di specifiche regioni encefaliche misurando i flussi sanguigni. Le due tecniche principali sono la Risonanza Magnetica Funzionale (FMR) e la tomografia a emissione positronica (PET). È importante essere consapevoli di facili illusioni. La ricerca sulle reti neurali le tecniche di neuroimmagine può in un certo senso essere paragonata al tentativo di ricostruire la mappa delle differenti città del nostro pianeta avendo come unico dato il flusso di passeggeri agli aeroporti. Uno si può aspettare al massimo di avere un’idea approssimata della dimensione delle città. Tuttavia il paragone è eccessivamente ottimistico:il numero dei possibili circuiti costituiti dai cento miliardi di neuroni che in media formano un cervello umano è dell’ordine della milionesima potenza di 10: una rete inimmaginabile se si tiene conto che il numero di particelle di cui è composto l’universo è circa 1072 [9]. Così è poco quello che può essere visto, anche se tuttavia non trascurabile.
- Oltre alla descrizione divulgativa degli esperimenti di neurolinguistica qui descritti e dei fondamenti della teoria di Chomsky in [4] il lettore può trovare una lettura sintetica della storia del pensiero linguistico e del mistero del linguaggio in [14]; chi invece fosse interessato alla linguistica formale e alla teoria della struttura della frase può invece vedere [15].
Indicazioni bibliografiche
- Chomsky, N. (2004), The Generative Enterprise Revisited, (Mouton de Gruyter: Berlin – New York).
- Greenberg, J.H., Ed. (1963), Universals of Language (The MIT Press: Cambridge, Mass.)
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- Moro, A. (2010) Breve storia del verbo “essere”, Adelphi, Milano.
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