Sono stato allievo di don Giussani, non solo in Cl, ma come studente universitario, trent’anni fa, in questo ateneo, seguendo le sue lezioni su Il senso religioso. Questa sera però non farò delle considerazioni come suo discepolo ma, seguendo il metodo di questo libro, cercherò di far parlare il protagonista attraverso la sottolineatura delle parole che più mi hanno colpito nel percorso che viene descritto.
La prima è la parola “esperienza”. Savorana a pag. IX dell’introduzione dice: «Qui mi sembra collocarsi la radice del contributo di don Giussani alla vita della Chiesa: di fronte a una fede popolare che in molti casi sopravviveva come pura tradizione, […] egli si rese conto che la debolezza dell’esperienza cristiana dipende dal fatto che la fede diventa incomprensibile, se i bisogni dell’uomo non sono presi sul serio».
«“Ragionevole” designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza»: è la frase del filosofo Jean Guitton a cui Giussani richiamava spesso. Infatti, per lui «se la realtà si rende evidente nell’esperienza, se “l’esperienza è il rendersi evidente della realtà”, allora, per conoscere qualsiasi cosa, per pronunciarsi a riguardo di qualsiasi cosa, occorre partire dall’esperienza» (pag. 969).
Esperienza” è lo stesso termine di cui Giussani dialoga con il cardinale Montini, futuro Paolo VI, che la inserisce a pieno titolo nel testo della sua prima enciclica, l’Ecclesiam suam, nonostante l’avesse inizialmente indicata come motivo di preoccupazione nell’ultima lettera da Arcivescovo, il 16 giugno 1963 (pag. 304).
Ma qual è in particolare l’esperienza di cui parla Giussani? A pagina 868 si parla di «esperienza di una corrispondenza tra una presenza e le esigenze strutturali del cuore». Dal suo intervento al primo convegno della Compagnia delle Opere nel 1987 si capisce che non la intende come un’astrazione intellettuale, ma come una dimensione che riguarda tutti. Infatti, non c’è opera, «da quella umile della casalinga a quella geniale del progettista, che possa sottrarsi […] alla ricerca di una soddisfazione piena, di un compimento umano: […] sete di felicità che parte dall’istintività e si dilata a quella concretezza dignitosa che sola salva l’istinto dal corrompersi in falso ed effimero respiro» (pag. 710).
Dove rintraccia Giussani l’esigenza di questa corrispondenza come natura del cuore umano? L’abbiamo sentito prima da Paolo Mieli: nei molti grandi uomini che incontra. Innanzitutto in Leopardi, la cui grandezza sta, secondo Giussani, proprio «in questa impossibilità d’acquiescenza al piccolo […], quel medesimo “amaro desiderio di felicità”, che fu il sentimento più sofferto dall’uomo, è ciò che mette le ali nel canto del poeta», come ebbe a scrivere Giovanni Colombo, il professore di letteratura italiana che Giussani ebbe in prima liceo (pag. 45).
Oltre a Leopardi, nel libro sono citati molti altri autori che hanno testimoniato a Giussani la grandezza dell’essere umano, così come tante persone semplici, tra cui molti giovani. Come Luigi, un ragazzo che incontrò nella parrocchia di viale Lazio e che, di fronte all’argomentare di Giussani sulla fede, gli disse: «Guardi, tutto ciò che lei si affatica a espormi non vale quanto sto per dirle. Lei non può negare che la vera statura dell’uomo è quella del Capaneo dantesco, questo gigante incatenato da Dio all’inferno, ma che a Dio grida: “Io non posso liberarmi da queste catene perché tu mi inchiodi qui. Non puoi però impedirmi di bestemmiarti, e io ti bestemmio”. Questa è la statura vera dell’uomo». Dopo qualche secondo di impaccio Giussani gli dice, con calma: «Ma non è più grande ancora amare l’infinito?». Il ragazzo se ne va, ma «dopo quattro mesi è tornato a dirmi che da due settimane frequentava i sacramenti perché era stato “roso come da un tarlo” per tutta l’estate da quella mia frase». Luigi morirà in un incidente stradale poco tempo dopo (pag. 131).
In un incontro del 1988 con un gruppo di monaci buddisti conosciuti nel viaggio in Giappone dell’anno prima, il maestro dei novizi Shodo Habukawa, a cui Giussani rimarrà legato da profonda amicizia tutta la vita, interviene citando un antico proverbio giapponese: «“Quando arriva la farfalla vuol dire che il bocciolo ormai sta per sbocciare e quando fiorisce il fiore vuol dire che la farfalla sta per arrivare» e commenta: «Noi siamo un po’ come la farfalla. Una delle condizioni necessarie per poter riconoscere l’assoluto che è dentro di noi è prima di tutto riconoscere il mistero che è nella natura, in tutto l’universo, e questo non dipende dal nostro sforzo, è necessario un maestro che ci insegni a farlo. Infatti nel buddismo shingon è fondamentale questo rapporto tra il maestro e il discepolo”. Segue un dialogo, al termine del quale Giussani dice: “È con facile emozione che noi ringraziamo i nostri maestri per quanto ci hanno richiamato e fatto sentire oggi. C’è una percezione che mi sembra l’aspetto più facile di questa emozione, ed è la percezione di un’analogia o di una vicinanza tale che ci fa ripetere le parole di Rilke: “Una parete sottile ci separa”» (p. 779).
Cristo per Giussani è la risposta a questa domanda di significato. Come scoprì nel 1937 in quello che chiamò “il bel giorno”, quando don Gaetano Corti in seminario spiegò: «“Il Verbo di Dio, ovvero ciò di cui tutto consiste, si è fatto carne”, perciò “la bellezza s’è fatta carne, la bontà s’è fatta carne, la giustizia s’è fatta carne, l’amore, la vita, la verità s’è fatta carne: l’essere non sta in un iperuranio platonico, si è fatto carne, è uno tra noi”. In quel momento Giussani si ricorda dell’inno Alla sua donna di Leopardi: “In quell’istante pensai come quella di Leopardi fosse, milleottocento anni dopo, una mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto, di cui san Giovanni dava l’annuncio: ‘Il Verbo si è fatto carne’”» (pag. 47).
Da qui si dipana per Giussani tutta la tensione di immedesimazione in Cristo, l’unico che capisce e si appassiona della domanda dell’uomo.
Agli esercizi spirituali della Fraternità di Cl del 2002 Giussani rievoca un episodio della vita di Cristo: «Quella sera Gesù fu interrotto, fermato nel suo cammino al villaggio cui era destinato, […] perché c’era un pianto altissimo di donna, con un grido di dolore che percuoteva il cuore di tutti i presenti, ma che percuoteva, che ha percosso innanzitutto il cuore di Cristo. “Donna, non piangere!”. Mai vista, mai conosciuta prima. […] Che sostegno poteva avere quella donna che ascoltava la parola che Gesù diceva a lei? “Donna, non piangere!”: quando si rientra in casa, quando si va sul tram, quando si sale sul treno, quando si vede la coda delle automobili per le strade, quando si pensa a tutta la farragine di cose che interessano la vita di milioni e milioni di uomini, centinaia di milioni di uomini… […] il suono, il riverbero del pianto è giunto fino a Lui! “Donna, non piangere!”, come se nessuno la conoscesse, come se nessuno la riconoscesse più intensamente, più totalmente, più decisivamente di Lui!» (pag. 1099).
Carmine Di Martino, responsabile degli universitari di Cl, ebbe a sottolineare l’immedesimazione totale di Giussani con l’esperienza iniziale del Cristianesimo, come una delle dimensioni più potenti del suo modo di comunicarlo: «Mentre ripercorre la pagine che racconta il primo incontro di Giovanni e Andrea con Gesù, don Giussani è li, è presente, vede quello che accade e ci trascina a vederlo con lui; non parla di un passato lontano, descrive ciò che sembra avere sotto gli occhi, entra nella dinamica di quei momenti decisivi per la storia del mondo, li mostra nel loro svolgimento, esplicita le ragioni che dovevano essere all’opera. Ci calamitava: ci faceva entrare in ciò che era accaduto» (pag. 994).
Quello che è accaduto duemila anni fa e continua ad accadere oggi. In un’intervista del 1987 di don Scola per il periodico 30 giorni Giussani dice: «Il cuore della nostra proposta è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso» (pag. 752).
E’ l’incontro tra Cristo e l’uomo che Giussani documenta instancabilmente, raccontando ciò che vede e leggendo lettere tra le miriadi che riceve. Come la lettera di Andrea, un ragazzo malato di Aids, che lesse agli esercizi spirituali degli universitari nel 1994: «Di questa travagliata vita penso di essere arrivato al capolinea portato da quel treno che si chiama Aids e che non lascia tregua a nessuno. Adesso dire questa cosa non mi fa più paura. Ziba mi diceva sempre che l’importante nella vita è avere un interesse vero e seguirlo. Questo interesse io l’ho inseguito tante volte, ma non era mai quello vero. Ora quello vero l’ho visto, lo vedo, l’ho incontrato e incomincio a conoscerlo e a chiamarlo per nome: si chiama Cristo. Non so neanche cosa vuol dire e come posso dire queste cose, ma quando vedo il volto del mio amico o leggo Il senso religioso che mi sta accompagnando e penso a lei o alle cose che di lei mi racconta Ziba, tutto mi sembra più chiaro, tutto, anche il mio male e il mio dolore. La mia vita ormai appiattita e resa sterile, resa come una pietra liscia dove tutto scorre via come l’acqua, ha un sussulto di senso e significato che spazza via i pensieri cattivi e i dolori, anzi li abbraccia e rende veri rendendo il mio corpo larvoso e putrido segno della Sua presenza. Grazie don Giussani, grazie poiché mi ha comunicato questa fede o, come lei lo chiama, questo Avvenimento. Adesso mi sento in pace, libero e in pace. […] Grazie don Giussani, é l’unica cosa che un uomo come me può dirle. Grazie perché nelle lacrime posso dire che morire così ora ha un senso, non perché sia più bello – ho una grande paura di morire –, ma perche ora so che c’è qualcuno che mi vuole bene e anch’io forse mi posso salvare e posso anch’io pregare affinché i compagni di letto incontrino e vedano come io ho visto e incontrato» (pag. 923).
Per Giussani l’incontro tra l’avvenimento di Cristo e il senso religioso dell’uomo segna un metodo. L’insistenza sulla parola “metodo” è ciò di cui parla ancora con Guitton nel 1995: «“Ciò che in qualche modo non è nell’esperienza presente non esiste”. […] “Cristo deve essere sperimentato e, perciò, deve essere un avvenimento presente”. Perciò “non è pedagogia cristiana, se non piega a trovare nel presente un avvenimento in cui Cristo opera, cioè cambia”» (pag. 942).
Il 30 maggio 1998, all’incontro dei movimenti in piazza San Pietro, Giussani conclude il suo intervento dicendo: «Il vero protagonista delle storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo». Come abbiamo visto nel video introduttivo, terminato di parlare, raggiunge Giovanni Paolo II e si mette in ginocchio, gesto con cui sembrò documentare sinteticamente tutta la sua mendicanza.
Ma come questa esperienza è cattolica? Come sta questo rapporto personale che si stabilisce tra l’uomo e Cristo in relazione all’autorità?
C’è un altro passaggio che mi ha molto colpito nel libro: il contrasto tra potere e autorità. Nel 1986 Giussani fa cantare ai ragazzi riuniti in assemblea la canzone di Enzo Jannacci e Dario Fo Ho visto un ree commenta: «Il re è il simbolo del potere di questa società che odia questa nostra tristezza che è, in fondo, la carne vivente di quelle domande che costituiscono il cuore dell’uomo. È il primo segno dell’uomo, dell’umano. […] “Il vostro piangere fa male al re, […] e sempre allegri bisogna stare. […] Diventan tristi […]”: coloro che hanno il potere diventano tristi, se ti vedono piangere. […] Comunque la mordenza di questo noto canto di Jannacci è di grande attualità, perché ognuno di noi può cedere di fronte a una modalità di conduzione della società in cui diventano ovvi il limite e il soffocamento dentro il quale la nostra umanità è resa sempre più prigioniera, e sempre più insepolcrata» (pag. 731).
E questo è l’opposto di ciò che per Giussani costituisce il rapporto con l’autorità della Chiesa: che non consiste nel rendere conto a qualcuno, quasi fosse un limite alla libertà della propria esperienza, al valore della propria coscienza, ma come ciò che permette alla coscienza di essere autentica, di ritenere come parte integrante dell’esperienza il paragone con la realtà.
Come mostra la continua tensione al rapporto con i papi che ha ricordato prima Mieli. Ricorda Savorana a pag. 339 che nel 1975, il giorno dopo avere incontrato Paolo VI, Giussani scrive all’Arcivescovo Colombo: «Non posso non manifestarLe lo stupore e la gioia per il gesto di paterna benevolenza che Sua Santità ha voluto farmi la Domenica delle Palme, subito dopo il rito davanti a S. Pietro. Egli mi ha infatti incitato a continuare “con i suoi giovani” il cammino: ed io sono rimasto commosso senza parola, così come sono stato percosso da un senso di responsabilità quasi l’avessi sentito per la prima volta».
Lo stesso dialogo profondo e appassionato che cercò sempre con Giovanni Paolo II, già conosciuto come cardinale in Polonia e incontrato insieme ai giovani molte volte all’inizio del suo pontificato. Poi seguito facendo delle sue encicliche il testo di meditazione del movimento; chiedendo il riconoscimento della Fraternità di Cl; partecipando ai convegni sui movimenti; accogliendolo al Meeting di Rimini del 1982; facendo suo il mandato ad andare in tutto il mondo, che segnò la presa di coscienza di un compito al servizio dell’uomo e della Chiesa. Nella lettera del 22 febbraio 2004 il papa gli scrive: «Il vostro Movimento […] ha voluto e vuole indicare non una strada, ma la strada per arrivare alla soluzione di questo dramma esistenziale. La strada, quante volte Ella lo ha affermato, è Cristo».
E ancora il rapporto con l’allora cardinal Ratzinger, a cui Giussani sottopone le sue intuizioni in un paragone continuo e amicale. E la stessa apertura e ricerca di dialogo verso i vescovi: la figliolanza con Montini, il rapporto a lungo sofferto, ma sempre di paragone serrato e obbedienza con Colombo, la stima e le occasioni di incontro ricambiate con Martini, la conoscenza di lunga data con Tettamanzi che lo va a trovare per i suoi 80 anni.
Quindi, un continuo ricercato filiale paragone con l’autorità e ricerca di unità con la Chiesa: un genio cattolico, ma che fa del Cattolicesimo un’apertura sul mondo. A partire dal bisogno di giudicare tutto ciò che capita. Come dice nel 1997: «Le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama» (pag. 991).
Per questo Pierluigi Bersani, invitato al Meeting di Rimini nel 2006 a presentare il testo di GiussaniDall’utopia alla presenza, sottolinea come per il fondatore di Cl ci sia «un tema che viene prima […] dell’iniziativa ma la produce. C’è una presenza che non è isolamento, è una presenza espressiva» (pag. 484).
Come viene sottolineato nell’introduzione, la sua è “una partenza positiva, senza ombra di reattività”. Quello di Giussani è un giudizio originale e commosso su tutto, una certezza curiosa e appassionata, una simpatia per la realtà e per l’uomo che sa commuoversi.
Nel ’68 a un ragazzo di Varese che diceva: “Se non troviamo le forze che fanno la storia, noi siamo perduti”, Giussani commenta: “Io voglio semplicemente dire quello che mi è venuto come contraccolpo dentro il cuore nel sentire quanto quello affermava: che le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice” (pag. 412).
Guardò tutti gli eventi che accadevano in modo originale e profondo, come documentano gli interventi sui diversi organi di stampa: dopo la strage di Nassirya nel 2003, su richiesta del direttore Mauro Mazza, Giussani scrive il testo della “Copertina” che apre l’edizione delle 20.30 del TG2 Rai. Come scrive Savorana, «il suo è un grido: “Che orrore! Che vergogna!”. “Né il sol più ti rallegra. Né ti risveglia amor”. Il Pianto antico di Carducci custodisce nel cuore della nostra storia quel mistero per cui Dante Alighieri prega la Madonna perché una ricchezza di umanità nuova affermi la vittoria del bene attraverso il suo dolore di sposa e di madre: “In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s’aduna / quantunque in creatura è di bontate”» (pag. 1132). Così, come si era commosso profondamente lo stesso anno per la morte dei sette astronauti americani nello Shuttle Columbia (pag. 1113).
Questa è la radice di quell’animo che lo rese sempre aperto e in dialogo con chi viveva un’esperienza diversa dalla sua. Come si vide nell’intervento in occasione della profanazione del cimitero ebreo di Berlino nel 1998 che gli ricorda il tragico momento in cui gli ebrei «“hanno levato un grido, facendolo intendere a tutto il mondo, attraverso il martirio dell’Olocausto, l’assurdo sacrificio sopportato per tutti”, tanto che esso è diventato “una pedagogia per tutti i cristiani; […] “per noi cristiani oggi è più certa che mai l’analogia della vicenda di Cristo con il senso dell’Olocausto”» (pag. 1042).
Uno dei tanti segni, questo, dell’apertura che lo caratterizzò tutta la vita verso chiunque incontrasse, e che lo portò a conoscere Giovanni Testori, ad approfondire la conoscenza di Pierpaolo Pasolini, a diventare amico di Aldo Brandirali (fondatore di un movimento di ispirazione maoista che pubblicava la rivista Servire il popolo), o a entusiasmarsi per il ragazzo che fermò il carro armato in piazza Tienanmen a Pechino.
Uno spirito profondamente ecumenico il suo, che lo ha spinto ad incontrare il mondo ortodosso, ad appassionarsi delle vicende del popolo russo e a studiare a fondo la teologia protestante americana di cui esalta il riconoscimento del valore di ogni “io”.
Non si tratta di un semplice “progetto pastorale”, il suo è un pensiero sorgivo, originale, come riconoscono in tanti: Galbiati, Scola, Ratzinger, Bergoglio, Von Balthasar.
Ma si farebbe un torto a Giussani se non si dicesse che il suo è un pensiero sorto dal suo grande impegno di educatore. Un pensiero che è stato ed è ancora capace di introdurre “nella realtà totale” tanti: i ragazzi del liceo Berchet, tutti i primi Giessini che lo seguirono oltre l’ambito scolastico; successivamente gli studenti universitari della Cattolica e poi quelli delle altre università; i Memores domini, le suorine, i preti e tante famiglie e persone nei cinque continenti. Educando ha dato le ragioni con cui giudicare l’esperienza e ha sostenuto l’esperienza della carità come dono di sé commosso, proponendo attività di caritativa con i poveri, ma anche la creazione di opere, come la Compagnia delle opere, il Meeting di Rimini, il Banco Alimentare, l’AVSI, i Centri di solidarietà.
Lui si faceva colpire e imparava sempre qualcosa da chi aveva di fronte. Non voleva convincere, ma dare dei criteri con cui i ragazzi potessero giudicare tutto, compreso quello che diceva lui. Come disse nel 2001 durante la Giornata di inizio d’anno accademico degli universitari: «Per 50 anni ho guardato e ricevuto persone […] giocando solo sulla liberta pura – sulla liberta pura! –. Cercate ogni giorno che questa libertà pura corrisponda agli intendimenti vostri, ai criteri vostri, della vostra azione, e questo vi farà abbondare di pace» (pag. 1092-3).
Molti devono la fecondità della loro vita a questo uomo per il quale, come disse Nikolaus Lobkowicz, l’amicizia è una virtù (pag. 748).
Ma la verità di una posizione si vede nel momento della prova, come quella della malattia che, per la verità, non abbandonò mai Giussani fin dagli anni dopo il seminario quando soffre di malattie respiratorie, e poi negli anni 60 in cui si ammala alla cistifellia e all’apparato digerente. Ma sopratutto negli anni 90 in cui insonnia, diabete e Parkinson lo affliggono senza tregua. Gli ultimi sono anni di grave sofferenza. Ci sarebbe stato di che lamentarsi. Invece la positività domina. Al Meeting di Rimini del 2002 interviene dicendo: «Anche nella decrepitezza dei miei anni volevo dirvi che la speranza è una – una! –. […] Da un po’ di anni mi sono diventati abituali questi pensieri: spontaneamente uno è come assalito dalla gioia che se anche dura qualche istante, dura qualche istante, ma come emergenza della verità di tutta la vita» (pag. 1104).
Nel dicembre 2003, salutando in videoconfenza gli universitari di Cl al termine degli Esercizi spirituali a Rimini, dice: «Siate certi, siamo certi di questa gioia! Il Mistero è diventato uomo scendendo tra noi perché noi abbiamo ad attaccare la nostra vita sulle spalle di questa gioia, come un bambino che sta sul “groppone” del papà che lo porta per le strade di questo mondo» (pag. 1134). E nel gennaio del 2004 scrive in una lettera al papa: «Una orazione della Liturgia ambrosiana illumina il sentimento nostro in questi momenti: […] “Signore Dio, nella semplicità del mio cuore lietamente Ti ho dato tutto”» (pag. 1137).
E’ nella compagnia amorevole della Madonna che trova sostegno e questa suprema positività. «Maria, che come siamo ormai usi ripetere con l’Inno alla vergine di Dante – divenuto preghiera quotidiana –, è “di speranza fontana vivace”» (pag. 1139).
Come ricorda don Carrón: “Don Giussani ha detto a me e a chi era presente che lui aveva vissuto per Cristo, aveva sempre cercato di fare la sua volontà” e “ora voleva morire per Cristo” (pag. 1167).
La storia di don Giussani, così ben documentata dal libro di Savorana, è una storia che non si ferma qui ma sta continuando. Come gli sentii dire io pochi mesi prima che morisse: “La nostra forza, il nostro carisma, è l’unità tra me e Carrón […] Seguite Carrón” (pag. 1167). Così possiamo continuare a seguire Giussani.