L’estate che può cambiare il capitalismo italiano ha preso velocità. Nel giro di una settimana o anche meno abbiamo preso atto che:
A) L’Italia non ha più il controllo del settore del “bianco”, il simbolo del miracolo economico anni Sessanta. la famiglia Merloni ha ammainato la bandiera su Indesit/Ariston. Non è, almeno per ora, una tragedia perché sia a Pordenone (Electrolux) che a Varese (Whirlpool) o a Fabriano (sempre il gruppo Usa) nessuno ha voglia di rinunciare all’expertise ed al kow how accumulato dal made in Italy. Lezione n. 1: la “quasi family company” architettata da Vittorio Merloni per conciliare la crescita nell’economia globale con la tradizione non ha funzionato.
B) L'”invasore” Telefonica si ritira parzialmente da Telecom Italia obbedendo all’ultimatum dell’authority brasiliana. La novità offre spazio ad una public company, stavolta più sensibile al business che agli equilibri politici nostrani. La sensazione è che il terremoto sul mercato sia appena cominciato: si va verso la fusione dei competitor (Wind più 3), si profilano due partiti: Telecom più Sky contro Mediaset più Telefonica. Lezione n. 2: le alleanze difensive dell'”italianità” non funzionano più. E presto questo varrà anche per i media. Ammesso che i giornali italiani interessino a qualcuno.
C) Le medium cap italiane crescono nel mondo. I D’Amico stanno per firmare una jv storica con la Valero, il primo raffinatore del pianeta. Gtech, controllata dalla famiglia De Agostini, s’afferma quale leader industriale a Las Vegas, assicurando per 6,4 miliardi dollari (debiti compresi) il controllo del primo produttore al mondo di slot machines. Particolare di non poco conto: la nuova società, nata dal matrimonio tra i due gruppi, avrà sede a Londra. Come Fca, prodotto della fusione Fiat-Crhysler.
E qui esplode il vero coup de thèatre dell’estate. I vertici di Fca (Fiat più Chrysler) stanno esaminando l'”offerta indecente” in arrivo dal gruppo Volkswagen. Martin Winterkorn, mito dell’auto tedesca, ha proposto ad Exor e a Sergio Marchionne l’acquisto di una quota o di tutto Fiat-Chrysler con l’eccezione di Ferrari. Al gruppo Agnelli, oltre ad una quantità di denaro impressionante (“e che ci farei? Il pensionato di lusso a Tonga…” replicò a suo tempo l’avvocato Agnelli di fronte all’offerta di Daimler nel 2000) potrebbero mantenere il controllo del polo del lusso, Maserati più Ferrari (o la sola Ferrari).
A Volkswagen, grande novità, interessa soprattutto l’impero americano, cioè Chrysler. Marchionne ha creato una macchina vincente sulle ceneri di Detroit. I tedeschi, che in Usa sono sbarcati anche con il sindacato capitanato da Bernd Osterloh, hanno subìto tremendi rovesci: gli Stati del Sud vedono il modello delle relazioni industriali tedesco come il fumo negli occhi, l’impianto di Chattanooga stenta a crescere, i Suv sono un flop. Un disastro, insomma, che solo Marchionne potrebbe sistemare.
Da Fca, per ora, nessuna risposta. Può darsi che Marchionne riesca a vendere a caro prezzo un “pezzo” di Fiat, mettendo le basi per un formidabile decollo. Oppure si concluda un deal clamoroso. Oppure non se ne faccia niente.
La novità è che la bandiera, stavolta, non c’entra nulla. Fca è ormai un’azienda di diritto olandese con sede legale a Londra. E i cambiamenti azionari riguardano più gli investitori di Wall Street che non il cenacolo di Piazza Affari. Al governo deve interessare di più lo sviluppo dei programmi industriali del polo del lusso che non una dinamica societaria che risponde solo alle dinamiche dell’economia globale. E, in questa cornice, vale una sola notazione: ormai un Paese medio/piccolo come l’Italia, che vanta l’1% dei consumatori mondiali, può avere un ruolo leader in varie nicchie (gli occhiali, ad esempio) o di co-primario nel lusso (o nel food & wine) ma nei campi strategici, ove contano dimensioni di scala ben più imponenti, non può che collegarsi ad altri attori. O soffrire le pene d’inferno se, per calcoli privati, una parte del sindacato come la Cgil, continuerà a cavalcare la scelta del “c’è chi dice no”, in Fiat come in Alitalia. Il mondo corre, senza riconoscere più i confini passati.
Può non piacere, ma se se si vuol salvare almeno una parte della capacità di creare ricchezza del nostro capitalismo, bisogna adeguarsi alle nuove regole del gioco. Nella convinzione che, come è accaduto a Detroit, gli italiani possono essere più bravi dei tedeschi.