La produzione industriale nel mese di febbraio ha fatto segnare un calo dello 0,7% rispetto a gennaio, ma di ben il 6,8% rispetto all’anno precedente. Lo ha comunicato ieri l’Istat. Ma questo non è l’unico dato sul mondo imprenditoriale italiano giunto nella giornata di ieri. L’indagine Mediobanca-Unioncamere sulle medie imprese mostra infatti che il 38% di loro prevede un aumento del fatturato nel 2012 e quasi il 40% ritiene di vedere aumentare gli ordini dall’estero. Un quadro d’insieme quindi abbastanza complesso, in cui elementi negativi e positivi si mischiano. Abbiamo chiesto a Stefano Cingolani, esperto giornalista economico, di aiutarci a interpretarlo.
Cosa pensa di questi numeri diffusi ieri?
Il dato sulla produzione industriale è certamente preoccupante. Una conferma che le previsioni sul Pil di quest’anno erano un po’ troppo ottimistiche e dunque ha fatto bene il viceministro dell’Economia, Vittorio Grilli, a dire che saranno riviste al ribasso: inutile nascondere il fatto che andremo incontro a una recessione più pesante del previsto. In ogni caso l’indagine Mediobanca-Unioncamere offre segnali positivi.
Quali in particolare?
Ci sono imprese che si sono mosse, trasformate, ristrutturate e orientate verso l’estero. Vuol dire che c’è un tessuto industriale che sta reagendo, che presenta vitalità. Certo, resta una caduta della domanda interna, aggravata dalla stangata fiscale. Ma credo che questi segnali di vitalità vadano colti e messi in evidenza. Perché è molto diffusa un’immagine che ci ha fatto sempre interpretare male questa crisi che stiamo attraversando. Ce l’ha fatta vedere come un crollo, una caduta, anziché come una trasformazione, una grande ristrutturazione. Questa idea porta poi a sbagliare le ricette di politica economica.
Quale sarebbe la ricetta giusta?
In un momento in cui si parla tanto di sviluppo e di crescita, i tecnici del governo e i partiti stessi dovrebbero dire apertamente che Italia vogliono per il futuro: serve una strategia chiara in proposito. Abbiamo queste medie imprese che si stanno muovendo, che esportano, che già hanno attraversato con successo la crisi del 2008-2010: questi elementi di forza devono diventare il centro di una politica economica. Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, data la sua esperienza in Intesa Sanpaolo, una banca che si è sempre detta vicina alle imprese e al territorio, dovrebbe avere un’idea e dei dati utili per costruire una ripresa nella seconda parte dell’anno.
Prima ha detto che uno dei punti di forza di queste imprese è che sono state capaci di trasformarsi. In che modo?
Sono diventate orientate all’estero, non solo per via delle esportazioni, ma anche a livello di struttura industriale. Molte di loro producono anche fuori dall’Italia, pur facendolo anche qui: non si tratta di delocalizzazione, ma di imprese che si sono internazionalizzate. In Trentino ho visto una serie di aziende medio-piccole, tutte con una filiale all’estero. Per esempio, una di queste fa manicotti ed è molto forte nella sua nicchia di mercato e, oltre ad avere assunto operai in Trentino, ha aperto una fabbrica in Indonesia per esportare in Asia.
Cosa chiedono, di cosa hanno bisogno queste importanti imprese?
Nessuna di loro vuole incentivi. Non hanno bisogno di assistenza, ma di sostegno allo sviluppo. Servono, in particolare, supporti per l’internazionalizzazione, infrastrutture e credito. Quest’ultimo è senz’altro il punto fondamentale. La cosa interessante è chiedono credito non tanto o non solo per sopravvivere, per l’ordinaria amministrazione, ma per poter realizzare degli investimenti.
In effetti, l’indagine mostra che il 72% delle imprese segnala difficoltà nell’accesso ai finanziamenti. Come fare per aiutarle?
Ho la sensazione che quelli che una volta erano gli istituti di credito a medio termine, come l’Imi, con la loro struttura di credito alle imprese siano stati assorbiti e si siano persi dentro a questa sorta di supermercati finanziari che sono diventate le banche. Anche se certamente da questo punto di vista la situazione in Italia non è quella del mondo anglosassone. Forse bisognerebbe tornare a specializzare il credito, a creare canali privilegiati per dare credito vero, non assistenza o aiuti a fondo perduto. Anche se c’è un problema non irrilevante.
Quale?
Le banche hanno utilizzato la liquidità ricevuta dalla Bce per comprare titoli di stato e questo risponde un po’ anche a una necessità, vista la situazione del mercato del debito pubblico. Siamo di fronte a quello che gli economisti definiscono crowding out, ovvero “effetto spiazzamento”: la necessità di soddisfare l’esigenza pubblica (in questo caso il debito) comporta il mancato soddisfacimento della domanda privata (cioè il credito alle imprese). Questo è un ulteriore segnale di quanto il debito pubblico sia negativo. Bisognerebbe trovare il modo di creare una “corsia preferenziale” per il finanziamento di queste imprese, così da sfuggire dalla tagliola del crowding out. È una grande sfida, ma, come vediamo dai dati che abbiamo di fronte, provarci può valerne davvero la pena.
(Lorenzo Torrisi)