L’America è ripartita davvero? Una crescita di quattro punti percentuali nel secondo trimestre è al di sopra delle attese e in linea con il tasso di sviluppo che ha caratterizzato gli Stati Uniti prima della Grande recessione. Eppure il punto interrogativo è obbligatorio perché il primo trimestre dell’anno ha registrato una caduta del 2,9%. Dunque, bisogna attendere prima di stappare champagne. Intendiamoci, a differenza dell’Unione europea, gli Usa hanno digerito presto la grande caduta del 2008-2009 e dal 2010 continuano a crescere. Ma il motore dell’economia mondiale è andato avanti a balzelloni, sbuffando e faticando. Ha creato milioni di posti di lavoro, però a ritmi giudicati insoddisfacenti, tanto da riaprire la vecchia diatriba sulla ripresa senza lavoro (cosa dovrebbe dire l’Europa con una disoccupazione del 12%, doppia rispetto a quella americana?).
La spinta forte è venuta finalmente dagli investimenti (+5,9%) e dai consumi (+2,5%) per auto (il boom automobilistico non accenna a spegnersi) ed elettrodomestici. Ma anche l’edilizia si sta rimettendo in moto, mentre le imprese hanno ripreso ad accumulare scorte. Dunque, i segnali positivi ci sono tutti. E c’è davvero da sperare.
Auto, elettrodomestici, case, consumi, investimenti, sono le stesse voci che in Italia mostrano, invece, un andamento negativo. E proprio l’Italia, ormai, è l’unico Paese a non avere ancora recuperato gli stessi livelli produttivi e di reddito del 2007; anzi rispetto a prima della crisi, manca ancora un 10%. Sulla carta, le premesse per una ripresa ci sono tutte. La domanda estera, innanzitutto: secondo il Fmi, il prodotto mondiale salirà di 3,4 punti quest’anno e del 4% l’anno prossimo. La lunga recessione ha svuotato i magazzini, dunque le aziende che si sono ristrutturate dovrebbero essere pronte a scattare come molle. Gli immobili, nei quali gli italiani hanno investito i loro risparmi, hanno perduto la schiuma eccessiva provocata dalla bolla (che in Italia è stata meno spumeggiante che altrove), dunque il mercato dovrebbe rimettersi in moto. Il parco macchine è vecchio e poco ecologico, inoltre le aziende pur di vendere offrono molte condizioni finanziarie favorevoli: in America sono i prestiti subprime a spingere gli acquisti di auto, qui invece non c’è offerta che tenga, gli acquisti non ripartono. Le banche sono state riempite di denaro a basso prezzo dalla Banca centrale europea compensando così in parte le debolezze provenienti dai crediti incagliati e inesigibili. Il rischio dei titoli sovrani s’è ridotto, lo spread è favorevole, il denaro oggi costa di nuovo poco. E si potrebbe continuare con un lungo elenco di condizioni favorevoli. Tutto è pronto, insomma, eppure il corpaccione dell’economia italiana non si muove.
Se si guardano le ultime previsioni del Fondo monetario internazionale, l’Italia è il fanalino di coda dell’Occidente con un prodotto lordo che aumenta di appena lo 0,3%, seguita dalla Francia (+0,7%). La Germania è all’1,9%, persino la Spagna s’è messa in movimento (+1,2%) mentre la Gran Bretagna batte tutti con il 3,2%. Una prima conclusione è che segnano il passo proprio i due paesi più lenti ad adattarsi alle nuove condizioni del mercato mondiale e più restii a riformare il welfare state e il mercato del lavoro, cioè l’Italia e la Francia. Ed è esattamente questa la considerazione che guida gli economisti del Fmi così come quelli delle agenzie di rating, molto prudenti di fronte ai fuochi d’artificio mediatici, che per la verità vengono soprattutto da Roma, perché Parigi appare in questo momento grigia come i suoi cieli d’autunno.
In Italia, la grande eccitazione della primavera ha lasciato il posto a una delusione che cresce in modo proporzionale a questa estate che non vuole mai esplodere. Metafore stagionali a parte, è evidente che le speranze suscitate dalla netta vittoria di Matteo Renzi alle elezioni europee si stanno spegnendo, con il rischio di tornare al solito tran tran di riforme sempre rinviate, di promesse non mantenute, di liti parlamentari che coprono l’eterna mancanza di governabilità, il male endemico dell’Italia contemporanea secondo tutti gli osservatori internazionali, anche i più benevoli.
Ci sono alcune spiegazioni specifiche. Per esempio, le imposte. Non c’è dubbio che l’incertezza su quanto peseranno le tasse è uno dei fattori che gela il mercato immobiliare e induce le famiglie, a cominciare da quelle che hanno incassato il bonus di 80 euro mensili, a un comportamento cauto, precauzionale. Le stesse banche, sia pur aiutate da Draghi, debbono trovare denaro fresco per aumentare il capitale e ciò spiazza i prestiti alla clientela. Un altro punto interrogativo riguarda il mercato del lavoro: quanto incidono i ritardi nelle riforme annunciate? Quanti imprenditori che potrebbero assumere, aspettano di capire cosa succede prima di muoversi? Tutto questo è vero. Ma forse sull’immobilità del Paese incide la volubilità di aspettative che si muovono come banderuole scosse dal vento della politica. Oggi vanno su e domani giù, adesso girano a sinistra, poi tornano a destra.
Quel che accade al Senato, del resto, sembra lo specchio di un Paese a un tempo isterico e conservatore. Tra la difesa di posizioni acquisite e grida di attacchi alla democrazia, tra promesse di chiudere subito e minacce aventiniane, tutta l’attenzione è puntata su un provvedimento importante per i suoi significati simbolici, ma che avrà un effetto pratico spostato in avanti nel tempo. Dunque, le energie del presente sono concentrate su una scommessa per il futuro, mentre l’oggi richiede di compiere scelte forti, anche pesanti, qui e ora.
Manca ancora una chiara scelta sulle risorse che il governo dedicherà alla spesa pubblica e su come saranno coperte. Si continua a ripetere che sarà possibile sforare il 3%. Anche se lo fosse (e oggi non lo è) si tratta sempre di una manciata di milioni, invece bisogna mettere in moto (direttamente e soprattutto indirettamente) decine e decine di miliardi per far partire davvero l’economia. La politica fiscale è assorbita dall’ansia di rendere permanenti gli 80 euro che daranno, secondo la Banca d’Italia, un contributo alla crescita pari allo 0,1%. Ma nella fiera delle illusioni perdute il premio spetta alla spending review. Che ci sia il governo lo dice, dove sia nessun lo sa. L’errore di fondo è aver delegato l’intera politica della spesa a questa scorciatoia tecnica quando la decisione è più che mai politica. Così, il supercommissario Carlo Cottarelli farà la fine dei suoi predecessori.
In sostanza, abbiamo un Paese che aspetta, non sa che fare, né dove andare, guidato da un governo che dà spettacolo e non conclude, mentre il parlamento è paralizzato da una pantomima mediocre fatta apposta per l’effimera vita di un cinguettio. In queste condizioni, da dove dovrebbe arrivare la ripresa? Dal cielo?