Partendo dall’osservazione che la matematica è impopolare, l’autore costruisce in risposta un intervento apologetico. Innanzitutto difende l’importanza della matematica (e del suo insegnamento dalla scuola primaria) come parte di un cammino verso la verità: infatti «l’uomo è fatto per la verità». Ma non solo dal punto di vista del contenuto teorico, ma anche da quello della crescita personale la matematica è importante: «L’apprendimento del calcolo e della geometria fa dunque parte – con quello della scrittura – delle prime e più fondamentali azioni costruttive che a un bambino è dato realizzare».
La prospettiva che mi è stata proposta, quella di parlare dell’importanza del calcolo e della geometria nella scuola primaria, mi ha lasciato inizialmente un po’ perplesso e inquieto. In effetti, preoccuparsi dell’importanza di un insegnamento significa riconoscere che questa importanza può essere messa in dubbio. D’altra parte, soprattutto quando si parla dell’importanza di una disciplina, non si insegna e non si pratica la disciplina stessa.
Accade come quando il parlare del senso di un tipo di sapere – tra mille esempi le quattro operazioni dell’aritmetica – si sostituisce all’apprendimento del sapere stesso. Per fortuna, la maggior parte delle relazioni delle due giornate del convegno sarà dedicata ad apprendimenti, contenuti e metodi specifici. Essi recupereranno quello che ci sarà di necessariamente insufficiente nel mio intervento.
Un dubbio diffuso sull’insegnamento della matematica
Alla condizione di essere consapevoli della sua insufficienza, questo intervento che mi è stato chiesto e che sto per fare ha tuttavia una parziale giustificazione: esiste un profondo dubbio, condiviso da molti pensatori, sulla validità dell’insegnamento del calcolo e della geometria. La prova migliore di ciò è il modo in cui questi insegnamenti sono stati messi in discussione nei programmi e nella pratica della didattica. Questo dubbio non riguarda solo la matematica. Riguarda tutti gli insegnamenti disciplinari, a partire dagli insegnamenti fondamentali, e riguarda l’atto stesso di insegnare, di pretendere di trasmettere delle conoscenze.
Ma questo dubbio riguarda particolarmente la matematica nella misura in cui essa induce in una gran parte dei nostri contemporanei un fortissimo risentimento, proclamato da alcuni, negato da altri, presso i quali però si manifesta in misura non minore.
La matematica è stata causa di sofferenza, noia e umiliazione sui banchi di scuola per molti bambini, cosa di cui da adulti si ricordano. D’altra parte, è percepita da importanti correnti di pensiero come l’aspetto più evidente, cioè quello più responsabile, della disumanità del mondo moderno dominato dalla tecnoscienza.
Colpisce la constatazione che il risentimento nei confronti della matematica esiste anche da parte di un gran numero di rappresentanti delle moderne scienze della natura, nonostante almeno alcune delle loro discipline siano essenzialmente matematiche, e tutte siano matematiche almeno nel senso che si basano su misure. È così che il risentimento nei confronti della matematica si manifesta più o meno apertamente da parte della maggioranza dei membri dell’Accademia delle Scienze.
Comprendo quindi che mi si domandi, a me che sono un matematico, di produrre degli argomenti in grado di combattere il dubbio e il risentimento di cui sono oggetto il calcolo, la geometria e le scienze matematiche.
Prima di cominciare, conviene che rinnovi il mio avvertimento iniziale sul carattere necessariamente insufficiente degli argomenti che sto per produrre. Persino quando questi argomenti avessero una forza e una solidità straordinarie, sarebbero, come tutti gli argomenti intellettuali, impotenti a convincere veramente. È solo in matematica, giustamente, che una dimostrazione è sufficiente a convincere.
Lo spirito umano ha sete di argomentazioni razionali, ma ha ugualmente sete di esempi e testimonianze. Per questo l’esercizio della matematica supporta la matematica altrettanto e di più che le argomentazioni.
Faccio notare che ci troviamo in un istituto consacrato a praticare la matematica e la fisica teorica – che ne è indissolubilmente associata. In questo istituto hanno lavorato e lavorano persone per le quali la matematica e le scienze matematiche del mondo sono di più che un mestiere, sono una parte essenziale della loro esistenza e della loro personalità.
Perché insegnare calcolo e geometria?
Torniamo alla domanda che mi è stata posta: perché insegnare il calcolo e la geometria alla scuola primaria? E, più in generale, come decidere che cosa deve essere insegnato in modo prioritario a un bambino, nell’oceano di tutte le conoscenze acquisite?
D’altronde, perché insegnare delle conoscenze, perché trasmettere dei saperi?
Perché dedicare a essi una parte importante e persino maggioritaria degli anni più decisivi per la formazione della personalità dei futuri adulti?
In nome di che cosa imporre apprendimenti così specifici e circoscritti come il calcolo e la geometria a bambini davanti ai quali si spalanca la vita, una vita che è allo stesso tempo corta e aperta alle aspirazioni infinite dell’animo?
Perché dedicare centinaia di ore – o anche una soltanto – all’apprendimento delle quattro operazioni quando si sa che la vita umana non conta più di qualche centinaio di migliaia di ore, e talvolta molto meno?
Perché dedicare centinaia di ore – o anche una soltanto – all’apprendimento della geometria delle rette, delle circonferenze, dei triangoli e di altre figure elementari se esiste anche la minima possibilità che – come afferma la Rivelazione ebraico-cristiana – l’uomo sia creato a immagine di Dio?
Un’intuizione fondamentale: l’uomo è fatto per la verità
Da parte mia, non penso che sia possibile determinare ciò che deve essere insegnato negli anni più decisivi se, almeno implicitamente, non si ha una visione di ciò per cui l’uomo è fatto, della sua natura e del senso della sua presenza nel mondo.
Il contenuto di tutti gli insegnamenti e l’esistenza stessa della scuola, cioè di una istituzione votata all’istruzione, mi pare che si basino non su una pluralità di visioni possibili, indifferentemente intercambiabili, ma su un’unica intuizione fondamentale: l’uomo è fatto per la verità, la sua natura più profonda è che egli è capace di verità, il senso della sua presenza nel mondo è che il mondo così come esiste è per lui un cammino di verità.
[A destra: Euclide d’Alessandria]
Vorrei subito far notare che quello che dico non rifiuta il pragmatismo, ma solo la sua forma assolutizzata, molto diffusa ai nostri tempi, che squalifica la preoccupazione della verità in nome delle preoccupazioni della vita quotidiana.
Al contrario, il riconoscimento che l’uomo è fatto per la verità dà al pragmatismo la sua giusta forma e il suo giusto posto: la prassi fa parte del rapporto dell’uomo con la verità nella misura in cui è una componente essenziale, ma non unica, del rapporto dell’uomo con il mondo, che è per lui cammino di verità. In altri termini, il lavoro, e quindi anche le tecniche – di cui i primi esempi sono evidentemente la tecnica della scrittura e quella del calcolo – sono per l’uomo cammini di verità.
Allo stesso modo la speculazione intellettuale è una componente essenziale, ma non unica, del rapporto con il mondo dell’uomo, che è un essere razionale. In effetti, il piano della prassi e il piano speculativo possono e devono essere distinti ma non possono essere separati.
Ogni operazione pratica presuppone di essere rappresentata nel nostro spirito sotto una forma ideale e speculativa, e ogni speculazione presuppone delle tecniche e richiede la loro messa in opera.
Ma, fra tutti gli insegnamenti che è possibile fornire sul doppio piano, pratico e speculativo, perché scegliere di attribuire un posto, e persino un posto importante, al calcolo e alla geometria, come fondamenti elementari della matematica?
La risposta deve porsi sia dal lato del reale oggettivo, delle cose suscettibili di essere viste e pensate dall’esterno, sia dal lato del reale soggettivo, dell’uomo interiore nel suo rapporto personale con la verità.
La matematica è una dimensione essenziale del reale oggettivo.
A sostegno di questa affermazione, si pensa necessariamente ai meravigliosi successi delle moderne scienze della natura, cioè della conoscenza matematica del mondo fisico che ha preso il suo avvio con Galileo, Cartesio, Newton,… Questo argomento non può essere dimenticato, né rifiutato, è così potente che è quasi dirompente, e non è vietato ipotizzare che il suo carattere massiccio e innegabile è in qualche modo implicato nel risentimento che la matematica induce in sì gran numero di spiriti e in mirabili scuole di pensiero.
Allora ricerchiamo un argomento più modesto; impediamoci di invocare i successi spettacolari delle moderne scienze della natura e delle tecniche che le accompagnano, e risaliamo all’origine di queste scienze moderne, al punto in cui esse sono nate distinguendosi dalle scienze antiche.
Gli Antichi, affascinati dalla regolarità del movimento degli astri, avevano già intuito che esisteva un rapporto fra la matematica e i fenomeni celesti. Essi vi avevano scorto segni di una realtà superiore, inaccessibile.
D’altra parte, essi sapevano misurare lunghezze, superfici, volumi e pesi, sapevano anche riconoscere le forme degli oggetti che erano intorno a loro e inventare nuovi oggetti i cui modelli seguivano queste forme elementari. Tutto ciò che può e deve ancora oggi costituire il contenuto di un insegnamento del calcolo e della geometria alla scuola primaria, e persino di più – con l’eccezione del meraviglioso sistema decimale – essi lo conoscevano e se ne servivano nella pratica.
Quello che è loro mancato per fondare quella che, secoli più tardi, sarebbe nata come scienza moderna, è forse il prendere sul serio la realtà materiale e carnale che li circondava.
Essi avevano riconosciuto dovunque intorno ad essi e dentro di sé la presenza di numeri e forme, ma quello che trovavano intorno a sé e dentro di sé era ai loro occhi meno reale e degno di interesse rispetto ai fenomeni celesti inaccessibili; la loro situazione di esseri incarnati in un mondo materiale suscettibile non solo di essere visto, ma anche toccato, non appariva loro come un cammino verso un livello più elevato di verità.
[A sinistra: Un frammento di papiro contenente alcuni elementi della geometria di Euclide]
La scienza moderna è stata fondata e si è sviluppata a partire dalla convinzione che il mondo costituisce per noi un cammino di verità in quello che ha di più prossimo, di più concreto, di più materiale, di più tangibile, di più carnale. Allora tutti i segni che le cose ci mostrano con insistenza, diventano indizi sul cammino verso verità molto profonde. Questo vale per quei segni particolarmente evidenti che sono la facoltà che hanno le cose di poter essere contate e misurate e la loro collocazione nello spazio come figure.
È a partire da questa osservazione e dalla convinzione che il dato di realtà è cammino di verità che si è costruito il meraviglioso e gigantesco edificio della scienza matematica del mondo.
Conviene aggiungere, per inciso, che la fedeltà a questo principio fondante della scienza moderna non consiste nel ridurre il mondo a misure e a rimpiazzarlo con la sua rappresentazione in termini di misure e di relazioni tra queste misure, cosa che costituisce la scienza moderna.
Ora questo mondo non si presenta a noi solo come un edificio di forme e di misure, esso mette alla prova e impressiona in ogni momento la nostra carne sensibile.
Del resto per questo motivo io considero estremamente importante nella scuola primaria, in parallelo ad insegnare il calcolo e la geometria, fare non solo lezioni di scienze, ma anche e in primo luogo lezioni di «cose». Le lezioni di cose hanno i medesimi oggetti delle lezioni di scienze, ma ne differiscono in quanto esse si dedicano a vedere, descrivere, osservare, nominare le cose come esse sono, senza sostituirle immediatamente né totalmente con le loro rappresentazioni in termini di misure e di figure.
Con questa riserva, non rimane meno vero che le misure e le figure, quindi i numeri e la geometria, rendono conto di una dimensione essenziale del reale oggettivo. Come tutto ciò che esiste, ci dicono qualcosa dell’assoluto. Tutto ciò che è suscettibile di essere visto dagli occhi viene contato, misurato e descritto geometricamente, sempre con gli stessi numeri e a partire dalle stesse figure geometriche elementari. La possibilità stessa della misura e del conteggio si basano sulla ripetizione all’infinito di strutture o forme simili, di cui l’animo umano è adatto a riconoscere l’identità, e sul fatto che lo spazio e il tempo ci appaiono come essenzialmente omogenei. Così si esprime l’unità profonda di tutto ciò che esiste.
Il linguaggio muto dei numeri, delle figure e delle relazioni fra le cose misurate che si esprimono in termini di questi numeri e di queste figure, manifesta il carattere assolutamente impersonale del mondo fisico così come ci appare. In altri termini esprime il fatto che la natura non è una persona. Una conoscenza che, forse, è ugualmente mancata ai Greci. Questa conoscenza è difficile ed esiste nell’uomo una tentazione permanente di rifiutarla, eterna rinascita del panteismo pagano.
Il risentimento verso la matematica non è negativo in assoluto- perché la matematica non è la totalità del mondo – ma lo è in parte, e non è proibito di vedere in esso una forma di rifiuto dell’impersonalità del mondo, quindi il rifiuto di una parte della verità.
La matematica come dimensione essenziale del reale soggettivo
In ultimo, vorrei richiamare l’altro versante della matematica, la sua realtà come dimensione essenziale del reale soggettivo, dell’uomo interiore nel suo rapporto con la verità. Forse conviene fare prima l’osservazione seguente, che può apparire paradossale.
Fin dal suo fondamento nel calcolo e nelle forme geometriche la matematica consiste in azioni. Azione di contare, azione di calcolare, lavoro delle operazioni dell’aritmetica, spostamento delle figure per riconoscerne l’identità quando esse si sovrappongono, traslazione di una figura identica che permette la misura, eccetera.
Questo è molto importante perché il «cucciolo d’uomo» ha bisogno di agire, è la sua natura umana, ma ha difficoltà a farlo, perché l’azione è difficile: infinitamente più facile è la distruzione, forma molto incompleta e insoddisfacente dell’azione, che i bambini praticano spontaneamente, non avendo acquisito la padronanza necessaria per ogni azione costruttiva.
L’apprendimento del calcolo e della geometria fa dunque parte – con quello della scrittura – delle prime e più fondamentali azioni costruttive che a un bambino è dato realizzare. Il calcolo è, una volta padroneggiato, quasi interamente meccanico, ma anche questo costituisce un insegnamento, perché ogni azione comprende una grande parte di operazioni meccaniche e di automatismo, come l’avanzamento meccanico dei piedi uno davanti all’altro per camminare.
Su tutt’un altro piano, ma non contradditorio e anzi complementare al precedente, la matematica è – a cominciare dal calcolo e dalla geometria – l’esperienza più immediata della trascendenza della verità.
Più di ogni altra attività pratica o speculazione intellettuale, la matematica fa comprendere che non si può decidere della verità. Si può trovare oppure no il risultato di una operazione ma è impossibile decidere in che cosa consista questo risultato.
Si può sapere oppure no che tutti i punti di una circonferenza sono alla stessa distanza dal centro di questa circonferenza, ma è impossibile cambiare qualcosa di questo fatto. È questo che molte persone percepiscono come il carattere dogmatico della matematica, un termine che, nel mondo contemporaneo, viene stigmatizzato.
D’altronde ho avuto occasione di rendermi conto che, persino all’Accademia delle Scienze, quando si denuncia il dogmatismo di un insegnamento che si dovrebbe «riformare» – così si dice – questo concretamente significa che si vorrebbe meno matematica.
[A destra: Una proposizione di Euclide rappresentante una generalizzazione del teorema di Pitagora dei triangoli rettangoli]
Ebbene, la constatazione che l’uomo è capace di fare matematica, aggiungendosi al fatto che essa costituisce una dimensione essenziale del reale oggettivo, significa che la verità, per la quale l’uomo è fatto, comporta una dimensione dogmatica.
È falso che i dogmi siano sempre malefici, come quasi tutti i nostri contemporanei ripetono a sazietà; essi sono malefici quando sono falsi, sono benefici quando sono veri. Ma decidere che nulla è vero è un mezzo comodo per evitare il compito di discernere il vero dal falso e di approfondirlo indefinitamente.
La matematica costituisce quindi una forma privilegiata, anche se incompleta, di rapporto con la verità trascendente e ciò ha una conseguenza molto importante per le persone: nell’esercizio della matematica, persino al livello più elementare del calcolo e della geometria, il bambino fa esperienza – forse molto nuova per lui – di non essere solamente un essere sociale.
Ogni lavoro matematico, anche il più semplice e il più elementare, presuppone di fare astrazione, almeno per un istante, da tutto il mondo circostante e dalla propria coscienza di sé per lasciarsi assorbire da un calcolo, dalla comprensione di una figura o di un enunciato, eccetera.
Ciò significa che, almeno per un istante, la persona dimentica tutto il suo essere sociale per mettersi in presenza di una verità particolare. Inoltre, una volta ottenuto il risultato del calcolo o del ragionamento, e anche se è vero che la persona ritorna cosciente di ciò che la circonda, la validità del risultato che è ormai depositato sulla carta non dipende dagli altri – né dagli allievi e neppure dal professore – in misura maggiore che da se stesso.
La matematica insegna il carattere non arbitrario del linguaggio
Infine, e con questo vorrei terminare, la matematica insegna il carattere non arbitrario del linguaggio. In matematica, più che in ogni altra disciplina intellettuale, appare con evidenza che non si può scrivere qualsiasi cosa.
Le parole accompagnano ogni operazione matematica e io insisto perché si allenino infaticabilmente i bambini a relazionare per scritto, anche solo per presentare brevemente un semplice esercizio di calcolo. Ma le parole devono essere insegnate e poi impiegate con estrema attenzione.
Le soluzioni dei piccoli problemi devono prendere la forma di brevi relazioni molto curate dove nulla è lasciato al caso, dato che tutto concorre alla chiarezza della narrazione: essendo la matematica una forma di azione, la soluzione di un problema è insieme realizzazione di questa azione e racconto dell’azione compiuta.
Non nascondiamo il fatto che, per le persone per le quali l’esercizio della matematica ha finito col diventare una seconda natura, l’attenzione estrema portata al significato delle parole è spesso causa di solitudine: si percepisce con grande acutezza ciò che manca a certi testi o a certe parole nel loro orientamento verso la verità e non ci si può impedire di esprimerlo, e questo è fonte di incomprensioni reciproche di cui si finisce per capire l’irriducibilità.
Questo tipo di insoddisfazione che nel seno della grande famiglia umana manifestano gli spiriti esperti di matematica, non deve tuttavia sparire.
Sta a significare, nel suo modo molto imperfetto, che non esiste nulla al di sopra della verità.
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Laurent Lafforgue
(Matematico, Medaglia Fields nel 2002 – Docente presso l’École Normale Supérieure di Parigi)
[Intervento tenuto in occasione delle Journées «Trans-Maître», 23 – 24 Ottobre 2010: Instruire aujourd’hui à l’école primaire. Traduzione di Lorenzo Mazzoni]
© Pubblicato sul n° 54 di Emmeciquadro