Si racconta che nell’82 Enrico Cuccia, l’allora potentissimo banchiere a capo di Mediobanca, incontrando Giovanni Bazoli che si stava accingendo all’improba fatica di salvare il Banco Ambrosiano dal fallimento gli disse: “Il suo progetto è come il cappotto di un prete, chiuso da una fila di bottoni. Lei ha sbagliato ad abbottonare il primo, tutti gli altri si abbottoneranno male”. Ebbene, quel che sta accadendo all’Ilva è un po’ come quei bottoni. È il frutto avvelenato di una vicenda dissennata, che ha avuto dell’incredibile. Ed è una magra consolazione che in questo “round” il governo abbia fatto bene ad alzare la voce con gli acquirenti indiani del colosso Arcelor Mittal, convinti di poter venire in Italia a fare i furbi. Magrissima, però, se si pensa che fu questo stesso governo a decisamente “sparigliare” nella scelta di attribuire l’Ilva alla cordata Am Investco Italy, cioè poi agli indiani con una minima partecipazione del gruppo Marcegaglia. L’avete voluto – verrebbe da dire – adesso tenetevelo.
La prima domanda è: come può accadere che contratti di questa complessità si rivelino imprecisi e lacunosi al punto da lasciare a chi lo voglia i margini per ciurlare nel manico? Stuoli di avvocati, plotoni di consulenti e poi – solo dopo la firma! – ci si accorge che gli indiani non solo vogliono limitare i posti di lavoro attivi a quota 10 mila, lasciando a casa 4000 persone, ma vogliono pure liberarsi le mani – grazie al Jobs Act – nei confronti dei superstiti, per poterli licenziare quando vogliono! E di cos’hanno parlato, se non di lavoro e occupazione, negoziando le condizioni della vendita dopo la preaggiudicazione?
La verità è che l’Ilva è stata bistrattata dal potere pubblico, sin da quando è esplosa la bega giudiziaria che ha condotto al commissariamento e poi all’asta, per un cumulo di incapacità e burocraticità. Incapacità, perché non è prescritto da nessun manuale di management che un’azienda commissariata debba andare decisamente peggio di come andava nelle mani della proprietà privata delegittimata: semmai, dovrebbe andar meglio. L’accavallamento delle responsabilità tra potere giudiziario e governo, in una ricerca di colpevoli che di per sé non avrebbe comunque potuto condurre ad alcuna soluzione attuale il maxi-impianto di Taranto, ha fatti perdere mesi e mesi.
Molto più logico – e da più parte lo si disse – sarebbe stato scindere le sorti dell’Ilva da quelle dei Riva, vendendo assai prima l’impianto anche al costo di manlevare gli acquirenti della incognite giudiziarie. Non lo si è fatto. Oggi si contano i primi cocci. Come se niente fosse, Arcelor Mittal ha ufficializzato di fatto 4 mila esuberi da gestire: e quale sorpresa è mai questa? Si sapeva: magari non ufficialmente, ma si sapeva. Non si sapeva invece che avrebbero preteso di usare il Jobs Act – la cui vera natura, antigarantista, si dimostra plasticamente proprio in quest’episodio – col governo Gentiloni impegnato a difendere un’azienda e le sue maestranze dagli effetti perversi di una legge votata dallo stesso Gentiloni, sia pure sotto la guida di Renzi.
Ora il governo s’irrigidisce, e fa bene, ma non ha chissà quale potere contrattuale verso gli indiani: cambiare cavallo, al punto in cui si è arrivati, appare francamente impossibile, a meno di non voler rescindere il contratto con Arcelor e chiamare in soccorso la Cassa depositi e prestiti, ma anche in questo caso esponendosi a un’infinita bega giudiziaria, stavolta nella parte dei dissidenti.
L’Ilva, che è tuttora l’acciaieria più grande d’Europa, è entrata in crisi dopo la bufera giudiziaria del 2012. È arrivata sull’orlo del fallimento. È stata salvata con i soldi pubblici. Ed è stata passata agli indiani. Ora il governo fa la voce grossa anche per dimostrarsi sollecito verso i diritto dei lavoratori, tanto più in vista delle elezioni. Ma resta il fatto che una vendita così cruciale è stata gestita con leggerezza, se è vero che oggi una multinazionale quotata in Borsa trova modo, nelle pieghe dei contratti, di fare o annunciare cose del tutto diverse da quelle sottoscritte. E che al punto in cui si è arrivati, senza Arcelor Mittal non resterebbe che la rinazionalizzazione dell’Ilva. È questo che si vuole?