Sembra che questa volta Fiat faccia sul serio. Il 30 ottobre Marchionne, nonostante da mesi vada dicendo che la congiuntura economica è talmente negativa da rendere impensabile la creazione di nuovi modelli, presenterà un piano industriale. Che comprenderà anche la realizzazione di nuove auto e nuovi motori. Dal 2014, per esempio, saranno prodotti – con ogni probabilità a Melfi – due mini-Suv: la Fiat 500X e la Fiat500X Jeep. Si parla anche di una nuova Topolino ibrida, da assemblarsi e Torino, e della Chrysler 100, a Melfi. In cantiere, c’è anche – tra le altre cose – la produzione dei nuovi cambi C635 e, nello stabilimento campano di Pratola Serra, l’avvio del montaggio annuale di 80/100 mila motori diesel per la giapponese Suzuki. Marco Saltalamacchia, già presidente di Bmw Italia, consulente strategico e noto esperto del settore automotive, spiega a ilsussidiario.net quali sono le prospettive del Lingotto.
Fino a pochi giorno fa, Marchionne affermava convinto che, data la peggiore crisi del mercato automobilistico degli ultimi decenni, produrre nuovi modelli sarebbe stato un suicidio. Cos’è cambiato nel frattempo?
Un’azienda automobilistica non può sopravvivere senza un piano industriale. Esso rappresenta parte di un ciclo di pianificazione che alimenta tutta l’azienda. Può accadere che tra un anno e quello successivo i piani vengano rivisti. Ma non è immaginabile pensare che, semplicemente, non si facciano più nuovi modelli.
Perché no?
Perché la concorrenza non sta ferma e ne produce di nuovi, accelerando l’obsolescenza dei prodotti delle azienda che, invece, mantengono sul mercato gli stessi. Tali aziende, a quel punto, non potranno fare altro che venderli a prezzi più bassi. Con il rischio evidente di perdere parecchio denaro.
Eppure, Marchionne, sin qui aveva annunciato che avrebbe ripreso la produzione solo a crisi finita
Sarebbe stato come decidere di allungare il ciclo di vita di tutte le automobili presenti sul mercato di altri anni. Non era pensabile. Un’azienda che facesse così sarebbe votata al fallimento e gli investitori scapperebbero.
Non crede che Fiat si sarebbe potuta limitare a produrre auto in Usa e ridurre sempre di più le proprie attività in Europa?
Ciò che caratterizza un’impresa automobilistica di successo è la sua globalità. Mi spiego meglio: per realizzare una piattaforma nuova che produca un certo genere di modello occorre investire circa un miliardo di euro. Il tempo necessario per portare un’auto sul mercato è di circa 4 anni. Una volta in vendita, vi rimarrà per circa 7 anni. Complessivamente, quindi, il ciclo di una vettura si aggira sui 12 anni. Ora, per massimizzare i ricavi e ammortizzare l’investimento iniziale di un miliardo, l’ideale sarebbe mantenere la vettura sul mercato per 20 anni o, comunque, il più a lungo possibile. Va da sé che questo non può avvenire. Perché, nel frattempo, arrivano nuovi concorrenti, i prezzi si armonizzano e i margini si riducono, mentre il ciclo di vita delle auto si riduce.
Quindi?
Non resta, a questo punto che aumentare i volumi. Operazione sempre più difficile da compiere all’interno di un singolo mercato. Occorre espandersi in tutti quelli rilevanti. Anche perché in quei 12 anni di vita del prodotto, può accadere di tutto. La valute nazionali, per esempio, possono apprezzarsi o deprezzarsi significativamente. Il che non è assolutamente prevedibile su un arco di tempo così lungo. Il metodo più naturale per proteggersi, quindi, è avere una base produttiva e commerciale mondiale. Produrre e vendere la stessa vettura in diversi Paesi consente di disporre di economie di scala e di processo. Nel momento in cui, per intenderci, sale il dollaro e scende l’euro, si ridurrà la produzione europea a favore di quella americana, producendo più auto in America, destinandole al mercato europeo.
(Paolo Nessi)