Occorre ricominciare nella scuola ad avere cura delle parole e dei discorsi, da parte degli insegnanti come dei ragazzi.
Le competenze linguistiche sono riconosciute decisive per tutte le discipline, per la matematica in modo particolare, perché influenzano direttamente l’apprendimento, riguardando sia la comunicazione sia l’argomentazione. Non bisogna rinunciare a far parlare i ragazzi sia nel condurre il lavoro in classe, sia cercando precise modalità di interrogazione orale.
Questa, infatti, può costituire una importante occasione di formazione se l’insegnante, partendo da un atteggiamento positivo, guida il dialogo attraverso domande ben poste.
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Cominciano a levarsi voci preoccupate sulla qualità dei «discorsi» tra le persone in generale, tra i giovani in particolare.
La scuola è molto interrogata dalle carenze linguistiche diffuse e dal declino delle capacità comunicative ed espressive legate alla verbalità, orale e scritta. In un recente interessante articolo sul quotidiano Avvenire [1], il neuroscienziato Lamberto Maffei titolava provocatoriamente: Scuola della parola per il bene del cervello. Perchè dico «no» all’uso dello smartphone in classe, segnalando le ricadute sull’apprendimento del distacco da un linguaggio ricco, preciso e significativo.
Non è un allarme nuovo; per esempio, già nel 1985 Italo Calvino, nelle Lezioni Americane, lamentava [2]: «Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze».
Tuttavia oggi il fenomeno pare intensificato, per la dominanza generalizzata delle comunicazioni brevi e scarne dei social, preferite dai giovani, che rinunciano allo sforzo di usare testi linguistici più articolati, necessari a comunicare pensiero e riflessione, e per l’abitudine all’uso di simboli iconici che addirittura sostituiscono la parola.
Abbiamo sempre analizzato e sostenuto il forte, decisivo legame tra lingua e matematica, tra formazione del pensiero verbale e strutturazione del pensiero matematico, perciò siamo consapevoli che la situazione di cui parliamo riguarda da vicino la matematica e il suo insegnamento.
Certamente la questione principale è come si «parla matematica» in classe, nel lavoro quotidiano, sia da parte dei docenti sia da parte degli studenti. Fare della classe un luogo di «cura della parola» è necessario, ed è possibile se tutte le discipline se ne preoccupano, e la matematica non ne è per nulla esclusa.
Non si tratta solo dell’aspetto comunicativo: parlare «bene» è senz’altro indispensabile al docente, per farsi capire, qualunque registro linguistico adotti, dal linguaggio comune – contesto ineliminabile di trasmissione dei contenuti – al lessico specifico, a quel linguaggio intermedio che alcuni studiosi denominano «didattichese», che caratterizza il parlare di matematica a scuola rispetto allo scambio verbale tra soli matematici addetti ai lavori.
Ma è l’aspetto argomentativo quello che forse ci interessa di più, e questo è fortemente influenzato dal come si parla. È augurabile che le lezioni consentano in classe di dare spazio alla narrazione, e che agli alunni non sia richiesto solo ascolto (e comprensione) delle spiegazioni, ma si facciano parlare, favorendo la conversazione e la discussione didattica: non basta imparare a «saper fare», è indispensabile proporre anche «parliamone un po’».
È questo il primo luogo in cui curare la precisione del lessico e la completezza e chiarezza dell’esposizione verbale di concetti, procedimenti, ragionamenti.
Come interroghiamo
Una occasione importante per «far parlare» gli studenti è sempre stata l’interrogazione orale, elemento di valutazione, finora giustamente richiesto, per verificare competenze e conoscenze degli alunni.
Oggi, dilaga una diffusa rinuncia alle prove orali, rinuncia spesso giustificata dalla ristrettezza del tempo disponibile.
Si tende a sostituirle con «verifiche scritte per l’orale», predisponendo prove – spesso nella forma di test – che presentano quesiti, di natura diversa da quelli delle «prove per lo scritto», che permettono di valutare, anche in modo adeguato, la comprensione e l’esposizione dei contenuti, la correttezza lessicale, la precisione linguistica. In alcuni casi va anche notato che questa modalità è positiva rispetto a particolari difficoltà psicologiche legate all’emotività, che impediscono a qualcuno di esprimersi in presenza dei compagni o di fronte all’insegnante.
Occorre senz’altro tenere conto degli aspetti emotivi, ma non è detto che sottrarsi all’esposizione orale sia l’unica via, e il non far parlare i ragazzi «in pubblico» lascia una lacuna importante nella loro preparazione e maturazione.
Offriamo perciò qualche spunto di riflessione su come potremmo mantenere l’occasione di «far parlare» nell’interrogazione di matematica, nell’intento di farne un contesto privilegiato di riflessione e consapevolezza linguistica, e non solo di ripetizione, pur corretta e completa, di formulazioni pedissequamente enunciate.
Le domande giuste
La prima cosa su cui riflettere è come facciamo le domande. Fare le «domande giuste» è una delle cose più difficili, e deve diventare un’arte dell’insegnante.
Un testo che mi ha incuriosito e illuminato su questo aspetto è stato L’arte del dubbio del magistrato (oggi scrittore apprezzato di gialli) Gianrico Carofiglio. In questo libro, oltre a offrire riflessioni davvero interessanti sul rapporto tra linguaggio, persuasione e verità – rapporto centrale non solo al pensiero giuridico -, descrive alcune dinamiche dei controinterrogatori di testimoni nei processi penali.
Ne emergono alcune questioni che presentano analogie interessanti con quello che avviene in una interrogazione a scuola. «Per capire che una risposta è sbagliata, non occorre una intelligenza eccezionale, ma per capire che è sbagliata una domanda ci vuole una mente creativa», è stata la prima affermazione che mi ha provocato a riflettere sull’importanza di come formuliamo le domande, non curandoci del fatto che un’interrogazione possa fallire perché poniamo ai ragazzi le domande sbagliate. Egli afferma che «ottenere date risposte piuttosto che altre, in molti campi dell’agire umano, dipende non solo e non tanto dal substrato di informazioni e conoscenze in possesso dell’interrogato e dal suo livello di sincerità, ma anche dai modi e dai contesti in cui la domanda è posta» [3].
Non sempre poniamo le questioni nei termini giusti, e già questo genera incomprensione (quante volte ci sentiamo ribattere: può ripetere la domanda prof.?).
Ancora, nel domandare non sappiamo «distinguere i livelli» delle questioni, perciò cominciamo magari dal punto più difficile, e non sappiamo «guidare» l’espressione e il ragionamento dei ragazzi perché possano fare un percorso che parta dal semplice e riesca a salire al complesso.
Siamo più abituati a questa attenzione nelle prove scritte, se cerchiamo di costruirle in modo adeguato.
Un primo espediente, soprattutto per docenti alle prime esperienze, può essere preparare prima le domande, avendo ben chiaro quale aspetto, quale profondità, quale ampiezza si vuole indagare, e ipotizzando anche una corrispondente valutazione dei livelli di risposta.
Non che il problema sia elaborare a priori un repertorio di domande «ben formulate», come si potrebbe fare per partecipare a un gioco a quiz. Le domande che un insegnante può fare per una valutazione formativa dell’apprendimento devono essere relative al lavoro effettivamente fatto con i ragazzi in classe, perciò solo il docente può veramente decidere cosa chiedere e deve sapere come vuole interrogare.
In ogni caso, curare le domande è produttivo, perché avere una risposta è diverso da non averne, significa almeno la volontà di interloquire, di «accettare le regole del gioco», e non abbandonarsi alla rinuncia o al totale disimpegno.
È importante raccogliere tutto quel che si può raccogliere da una risposta, anche sbagliata.
Spesso le risposte che riteniamo sbagliate sono piuttosto incomplete o inefficaci perché confuse: da parte del docente serve continuare nell’indagine senza perdere gli indizi che gli studenti hanno comunque lasciato. Anche una risposta sbagliata può essere un punto di partenza: si può far riflettere sul motivo per cui la risposta è sbagliata; spesso emergono in questa fase convinzioni errate, che possono venire smascherate e corrette, o espressioni verbali non adeguate per esprimere il concetto che magari è compreso.
Riportiamo due esempi, relativi ad argomenti abbastanza elementari, tra secondaria di primo grado e biennio della secondaria di secondo grado.
Aritmetica
In aritmetica, sull’insieme dei numeri naturali e delle relative operazioni elementari, una domanda di routine può essere: «enuncia le proprietà delle potenze», aspettandosi di sentirsele correttamente esprimere a parole.
Qualche volta succede, ma purtroppo non è così frequente…
Occorre poter distinguere tra le possibilità che un ragazzo non le abbia capite, e sia ancora incerto sul loro significato; le abbia capite, ma non le sappia utilizzare, e magari nemmeno enunciare; le abbia capite, le sappia utilizzare ma non enunciare. Infine, può anche succedere che le enunci correttamente, ma in realtà non le sappia utilizzare e non le abbia capite!
Si tratta di livelli di apprendimento diversi, che devono portare a valutazioni diverse.
Per distinguerli, può essere più produttivo condurre la domanda nel modo seguente per ogni proprietà delle potenze: «fai un esempio numerico, spiega come hai operato e perché». Poi proporre un secondo esempio con numeri diversi (è molto probabile che i ragazzi scelgano numeri piccoli), lasciare operare l’interrogato, infine chiedere: «Enuncia la proprietà generale».
Algebra, equazioni di primo grado
Si può chiedere «che cos’è un’equazione e cosa significa che un certo numero è sua soluzione», aspettandosi delle definizioni.
Ma si può anche partire in modo operativo, per esempio chiedendo: «scrivi un’equazione (di primo grado) che abbia come soluzione 8».
Risalire dalla soluzione all’equazione è una domanda un po’ insolita, se non si è lavorato attentamente sui significati piuttosto che sulle procedure: gli alunni si aspettano magari di aver da fare lunghi calcoli, e sono disposti a eseguirli, ma possono trovarsi a disagio alla richiesta di «inventarsi» un’equazione, anche semplice.
Se l’interrogato non riesce a muoversi, può servire guidarlo a ricostruire il significato di «soluzione di un’equazione» lavorando su equazioni semplici. Se invece sa farlo -il che mostra già apprezzabile comprensione- si può passare a dettargliene un’altra (ottenuta da quella) con la stessa soluzione, fargli riconoscere la relazione tra i due esempi, i principi usati e farglieli enunciare.
In questo modo si può valutare la comprensione dei concetti fondamentali e l’esposizione degli enunciati.
Interrogare o controinterrogare?
Dal testo citato possiamo trarre un secondo elemento di riflessione, partendo dalla considerazione che nei processi non sempre si procede al controinterrogatorio dei testimoni, perciò il controinterrogatorio deve seguire da un ragionevole dubbio e avere un preciso scopo, quello di poter accertare la credibilità del testimone, smascherando le eventuali falsità delle sue affermazioni: «si procede al controesame se si ha un obiettivo significante sotto il profilo probatorio e se tale obiettivo appare praticamente raggiungibile».
Anche noi dobbiamo chiarirci lo scopo dell’interrogare: ci interessa accertare cosa un ragazzo ha capito, cosa ha veramente appreso, il percorso che sta facendo, o piuttosto ci dedichiamo a cercare di scoprire quello che non sa, o a mettere in difetto quello che sa?
Un atteggiamento di questa natura porta facilmente a concludere che il ragazzo non sa (o non sa abbastanza) e a dare valutazioni negative, ma noi potremmo davvero non aver interrogato, ma, in un certo senso, controinterrogato il ragazzo. Ci poniamo così nella posizione del giudice, cercando di capire se la preparazione del ragazzo è credibile o no, interroghiamo per «smascherare» l’attendibilità delle loro risposta.
Certo è responsabilità nostra accertarci che i contenuti siano acquisiti e siano radicati in ragioni chiare e forti, ma è bene che l’atteggiamento di chi interroga non sia solo dubitativo a priori, ma positivamente diretto a convincere il ragazzo stesso delle proprie ragioni o delle proprie lacune.
Se abbiamo chiaro lo scopo, sapremo interrogare seguendo modalità più precise e interessanti di interlocuzione formativa, aiutandoci a rendere anche le interrogazioni occasioni importanti di elaborazione, riflessione e apprendimento per tutta la classe, oltre che a riuscire a concludere con valutazioni significative e il più possibile capaci di mobilitare positivamente lo studente.
In questo modo lo si può aiutare ad apprendere in una relazione dialogica -non è infrequente incontrare qualcuno a cui si chiarisce un concetto durante l’interrogazione- e forse si può cominciare a smantellare la diffusa opinione che la scuola non insegna a pensare, ma richiede solamente di ripetere quello che gli insegnanti dicono.
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Raffaella Manara
(già docente di Matematica nel Liceo Scientifico, membro della Redazione di Emmeciquadro)
Indicazioni bibliografiche
Avvenire, 05-12-2017 «Scuola della parola» per il bene del cervello. Perchè dico “no” all’uso dello smartphone in classe» di Lamberto Maffei (Neuroscienziato, già presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei).
Italo Calvino, Lezioni Americane, A. Mondadori, Milano 1993 p. 66.
Gianrico Carofiglio, L’arte del dubbio, Sellerio, Palermo 2007.
© Pubblicato sul n° 67 di Emmeciquadro