Dopo oltre un lustro il Teatro dell’Opera di Roma ripropone Manon Lescaut, primo grande successo di Giacomo Puccini , in un’edizione con Riccardo Muti sul podio, sua figlia Chiara nella cabina di regia, e Anna Netrebko (per la prima volta sul palcoscenico della capitale) nel ruolo di protagonista e Eyvazov (che abbiamo ammirato a Ravenna lo scorso novembre nel ruolo di Otello) come suo deuteragonista.
Da quando il primo febbraio 1893 venne messa in scena, Manon Lescaut è una delle opere più rappresentate del compositore lucchese. Chiude l’epoca in cui dominava il melodramma verdiano e anticipa il Novecento storico, il cui inizio (in Italia) viene convenzionalmente legato alla prima di Tosca a Roma il 14 gennaio 1900. E’ opera analizzata per oltre un secolo da musicologi ed amata dal pubblico di tutti i Continenti (ne vidi un’edizione in Corea negli Anni Settanta e mi sono stati raccontati allestimenti in un cinema-teatro in Africa a sud del Sahara). Nel 2006 in Italia ci sono stati ben quattro allestimenti: uno, di taglio economico e facilmente trasferibile da un palcoscenico all’altro, ha preso l’avvio da Trieste per toccare Bolzano, Lucca, Ravenna, Livorno. Un secondo ha inaugurato la stagione del Regio di Parma in quanto fulcro di quella che sarebbe dovuta essere quella Fondazione “Parma capitale europea della musica” (ma non è mai nata); il terzo è stato a Torino in parallelo con le olimpiadi. Cagliari ha riprese l’allestimento della Deutsche Oper.
Quali i tratti salienti da ricordare in occasione dell’allestimento che sarà a Roma dal 27 febbraio all’8 marzo?
In primo luogo, è errato (come ancora fanno molti) considerarla, sotto il profilo drammaturgico, l’interpretazione più fedele del romanzo L’Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut dell’Abbate Antoine- François Prévost di quano non siano altre Manon. Il romanzo, in gran misura autobiografico, è imperniato sul protagonista maschile che Prévost non esita a mostrare come un gaglioffo tormentato, ma pur sempre corrotto (oltre che corruttore) e sgradevole. Nulla di simile al tenero giovincello innamorato di Jules Massenet o allo studente sensuale e passionale di Puccini. In effetti – tralasciando l’opéra-comique di Daniel Auber ed altre versioni minori – occorre aspettare il 1950 (o giù di lì) perché con il Boulevard Solitude di Hans Werner Henze si ritrovino – trasportati nella Francia della prostituzione e della droga degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale – i personaggi ed il clima di Prévost. Anche se sulla scena, non ci sono riferimenti ai più espliciti aspetti sessuali del romanzo settecentesco. Con una qualifica: come molti scrittori libertini (tra cui lo stesso Marchese De Sade), l’Abbate aveva non solo un vero senso di colpa ma anche intenzioni moralistiche (ambedue distinte e distanti dall’opera di Henze, come, peraltro, da quelle di Puccini, Massenet e Auber) tanto che eros e sesso non venivano vissuti in modo gioioso. Puccini (e la vera e propria squadra di librettisti che lavorarono con lui) leggono l’intreccio come una vicenda di eros e passione. Qui l’importante novità: la passione aveva un posto privilegiato nel melodramma verdiano (si pensi al duetto carnale del secondo atto di Un ballo in maschera), ma per gran parte dell’Ottocento, l’eros era di fatto bandito dal teatro in musica italiano (ma non da quello francese e tedesco). Nel melodramma italiano era giunto a conclusione con La Favorite di Gaetano Donizetti, nell’opera comica con Le Conte Ory di Giaocchino Rossini. Con Manot Lescaut torna prepotentemente in scena , proprio in quella Torino che non più capitale del Regno era alla ricerca della propria identità ed aveva, tutto sommato, un’anima bigotta.
In secondo luogo, l’eros è nella scrittura orchestrale e vocale più che nel libretto. Come in La Favorite il personaggio maggiormente avvinto dall’eros è il protagonista maschile, per il quale Puccini introduce una vocalità nuova: respinge virtuosismi e dolcezza, sceglie una linea sobria , puntando tutto la zona centrale dove il canto raggiunge la maggior intensità sensuale. Nell’Ottocento, questa era stata una caratteristica di alcuni tenori wagneriani (Siegfried nell’opera eponima, Walter von Stolzing ne I maestri cantori) . Con il Des Grieux di Manon Lescaut si apre la strada, in Italia, ai personaggi costruiti sulla sensualità virile – si pensi a quelli concepiti per Enrico Caruso. Più sfumato l’eros della protagonista che, per esplodere, necessita del grande duetto del secondo atto. La parte è scritta per un soprano lirico puro e tale è stata interpretata sino agli Anni Sessanta (si pensi a come il ruolo veniva cantato da Clara Petrella e da Virginia Zeani); nel 1984, Giuseppe Sinopoli scelte un soprano lirico puro (Mirella Freni) per un’importante edizione discografica.
In tempi più recenti, in gran misura in seguito alla interpretazione di Maria Callas della caloratura da lei data all’aria del secondo atto (In quelle trine morbide), oltre che dal colore bruno da lei dato al duetto sempre del secondo atto (Tu , amore? Tu?) e al finale “Sola, perduta, abbandonata), si è favorita una tinta a volte più scura, sino al soprano drammatico di agilità – è stato per lustri il ruolo preferito da Renata Scotto al Metropolitan. Ricordo, nella seconda metà degli Anna Settanta, Renata Scotto dirmi che preferiva il personaggio di Puccini a quello di Massenet perché era più passionale; all’epoca la Signora Scotto (sempre una grande dame non utilizzava il termine eros ma era ciò che intendeva. Ancorato in gran misurata al baritono verdiano è Lescaut. E tale il basso brillante Geronte de Ravoir.
In terzo luogo, la funzione dell’orchestrazione. In Manon Lescaut , l’orchestra non è essenzialmente di supporto al canto (ed all’azione scenica) come nel melodramma verdiano. Ha assorbito, in parte, la lezione wagneriana del sinfonismo continuo nel golfo mistico. Quindi, l’organico si è ampliato ed arricchito e ci sono momenti (l’intermezzo) in cui la ‘musica a programma’, ossia il poema sinfonico, vengono inclusi nel gioco scenico. Inizia quel processo di orchestrazione opulenta (ed impervia) in cui la partitura è frastagliata e frammentata ma si ricompone di continuo in nuove unità – un processo che avrà, in Puccini, in suo apogeo in La Fanciulla del West ma a cui stava lavorando, in parallelo, in una piccola città provinciale di Moravia (priva di un vero e proprio teatro , nonché di una sala da concerto) Léos Janaceck. Manon Lescaut appartiene al Novecento storico per l’orchestrazione (che nelle esecuzioni e nelle recensioni riceve, spesso, poca attenzione) quasi più che per la vocalità. Se nelle voci si apre con un sublime “chiacchierar cantando” (quanto dovette imparare Richard Strauss da Manon Lescaut!) e si giunge ai turgidi “la” del duetto delle frenesia erotica del secondo atto, in orchestra, il grande organico si deve cimentare con una scrittura frammentata, spezzata e ricostruita.