Lo scirocco ieri mattina si divertiva con la pellegrina bianca del pontefice mentre sul sagrato della Basilica parlava alla folla di pellegrini arrivati per la catechesi. La papalina volata via, i capelli scomposti con un ciuffo che neanche Tintin uscito dalla matita di Hergé, il sorriso sempre aperto. Non mi sarei stupita di veder apparire da un momento all’altro il fido Milù. Del giovane report nato, insieme al suo cane, dalla fantasia del fumettista belga, Francesco ha la baldanza, l’allungo e la curiosità per il mondo. Non so perché, ma me lo ricorda. Me lo figuro pure con i pantaloni alla zuava e la camicia in maniche corte di chi è pronto all’avventura. Bergoglio ha sempre l’aria di chi scopre le cose correndo, di chi pratico di vita e di pensieri trova sempre la strada giusta. L’ha fatto anche ieri per far digerire uno dei bocconi più indigesti.
La ri-alfabetizzazione cristiana faceva tappa sul sacramento tabù per la modernità affrancata dal sacro: la riconciliazione. Perché avvicinarsi alla grata di un confessionale, mettersi in ginocchio, e riconoscere i propri limiti cozza con l’emancipazione intellettuale di molti cattolici autodefinitisi “adulti”, disposti a spendere migliaia di euro per stendersi sul lettino di un professionista dell’inconscio ma poco propensi a rivelare le proprie mancanze ad un uomo in talare. La confessione non va per la maggiore, sebbene viva una stagione di revival grazie ai ripetuti inni alla Misericordia di Francesco. In parte c’è una certa riluttanza del clero, per questo già bacchettato più volte dal Papa, dall’altra indubbiamente è maturata una resistenza “antropologica” al sacramento in questione, resistenza che bypassa la tradizionale allergia protestante per alimentarsi della presuntuosa libertà dell’uomo moderno o post-moderno.
Praticamente “perché cavolo devo raccontare i fatti miei ad uno che neanche conosco e neanche vedo, che spesso non sente neanche quello che dico, e che la maggior parte di volte ha anche l’alitosi, quando posso benissimo vedermela a quattrocchi con Dio?”. Tutti noi, prima o poi, siamo inciampati nell’obiezione cardine di varie eresie e scismi: “non serve il mediatore, vado diretto alla fonte”. Nel caso della Riconciliazione è facile cadere nel tranello, aiuta quel sentimento che generazioni di psicoanalisti hanno cercato di sfoltire, la “vergogna”, spesso usato come grimaldello per insidiare moralismi inutili, ma senza dubbio efficace nel denudare certe anime. La sua fortuna è direttamente proporzionale alla percezione del peccato. Più si è consci della mancanza più si prova vergogna.
Per questo Bergoglio ieri nella sua riflessione ha dichiarato che la vergogna “fa bene”, ci fa “umili”, ci spinge a riconoscere la nostra fragilità. E soprattutto uno che si vergogna ha bisogno di un “altro” sguardo in cui ritrovare la sua grandezza. Non si può perdonare da solo. La vergona è proprio il passaggio necessario all’Io super-incastrato su se stesso, il momento in cui si scopre bisognoso. Il Papa ieri, ammetto, l’ha messa giù più semplice. Puntando come sempre sulla fenomenologia: quando andiamo a confessarci abbiamo un peso grosso come un macigno e siamo tristi, tristi, tristi. Poi chiediamo e riceviamo il perdono di Gesù e ci sentiamo liberi, grandi, belli, felici e bianchi. La confessione fa l’effetto candeggina. Farà anche sorridere il fraseggio da catechista per bambini di prima comunione, ma è decisamente corrispondente al vero.
E il Papa non è un ingenuo, sa bene che c’è anche una componente umana, la stessa spinta che porterebbe qualcuno a comporre il numero di telefono amico o più incasinati a scegliere uno psicologo. Ma non si scandalizza e specifica: fa bene anche sfogarsi, “è buono” parlare con un sacerdote che è anche un fratello per dire ciò che opprime il cuore. Ma nella confessione si va oltre. C’è l’inizio di una festa, l’abbraccio al figliol prodigo, la contentezza e la commozione del Padre. Perché Gesù, ricordiamolo, è più buono del più buono dei preti.