I canadesi di Drbs ci hanno graziato: grazie a loro il debito italiano resta appeso a una A (perciò i Btp possono far parte dei portafogli degli investitori). Moody’s non ci ha dato il colpo di grazia. È già qualcosa alla fine di una settimana molto difficile, condizionata dai moniti severi del Fondo monetario internazionale, indulgente un anno fa. Allora l’assemblea del Fmi si chiuse con una solenne dichiarazione che sanciva la fine della recessione europea. Non è andata così stavolta. Anzi, non solo l’outlook del Fondo ha dovuto rivedere al ribasso le stime sia per il Vecchio continente che per Cina, Giappone e Paesi emergenti, ma sugli incontri di Washington si è materializzata una cappa di sfiducia che il direttore generale del Fmi, Olivier Blanchard, ha sintetizzato così: c’è il rischio che l’economia non torni mai più ai ritmi di crescita cui ci aveva abituati prima dello scoppio della crisi finanziaria. Ovvero, si è registrato uno strappo epocale, paragonabile a quello degli anni Trenta.
Dopo decenni passati a studiare gli errori dei banchieri centrali e dei politici dell’epoca, si deve prender atto che le terapie basate sulla sola politica monetaria non funzionano in circostanze eccezionali, così come i modelli econometrici in uso, che invariabilmente, da anni, dipingono scenari futuri che alla prova dei fatti si rivelano fasulli.
L’ondata di pessimismo ha avuto un’eco immediata sui listini azionari. C’è da domandarsi se tanto pessimismo sia giustificato dalla congiuntura o segnali soprattutto la preoccupazione di evitare nuove fughe in avanti dei capitali finanziari a danno dell’economia reale: nel mondo c’è fame di investimenti a lungo termine, non di flussi vaganti alla ricerca di speculazioni finanziate dal denaro a costo zero. In questa cornice, gli interventi si sono concentrati in due direzioni: convincere gli americani a non forzare i tempi dell’aumento dei tassi di interesse, che potrebbero far scivolare il mondo in una nuova recessione; convincere la Germania (e gli stessi Stati Uniti) a inaugurare una stagione di robusti investimenti per far ripartire la crescita.
In un certo senso, si tratta degli stessi problemi sorti a metà degli anni Trenta. Anche allora, anno 1935, gli Stati Uniti festeggiarono il ritorno del prodotto nazionale lordo su livelli vicini a quelli precedenti la crisi del 1929. Ma la Federal Reserve, preoccupata dai possibili effetti sull’inflazione, decise di alzare i tassi. Il risultato? La crisi tornò, più aspra che mai: l’indice della produzione crollò da 117 dell’agosto 1937 a 76 nel maggio del 1938. Difficile che Janet Yellen possa commettere un errore analogo. Ma è altrettanto difficile che lo staff di Barack Obama, stante la situazione di paralisi decisionale provocata dal braccio di ferro con il Congresso, possa dare il via a una stagione di investimenti tipo quella varata dal Parlamento Usa a fine anni Trenta, quando venne lanciato un grande piano di investimenti al servizio della ricerca. Ancor più improbabile che a prender l’iniziativa sia la Germania, nonostante il gap delle infrastrutture della Repubblica federale ossessionata dal taglio del deficit e del debito.
Di qui la sensazione che il mondo debba attendersi una lunga marcia nel deserto. O sott’acqua, se preferite, senza sperare in guizzi improvvisi al di sopra della linea della recessione. È il destino della stagnazione secolare, la teoria enunciata da Alvin Hansen nel 1938 e che è stata rilanciata da Lawrence Summers: in situazioni eccezionali, i tassi a quota zero possono comunque essere insufficienti per creare condizioni di crescita del lavoro. Si genera così una situazione di stagnazione da cui si potrà uscire solo con uno sforzo eccezionale sul fronte degli investimenti in grado di innescare la fiducia.
Non esistono in materia ricette facili. Anzi, stavolta a complicare le cose contribuisce l’innovazione tecnologica: il digitale, per ora, ha messo al tappeto interi settori (l’editoria, ad esempio) e ridotto il potere contrattuale dei ceti medi (i bancari, ad esempio) e ha distrutto più posti di quanti non ne abbia creati. In Italia, secondo una recente ricerca, l’innovazione tecnologica mette a rischio 56 posti di lavoro su 100.
È questa la cornice in cui l’Italia è condannata a muoversi, collaborando perché l’Europa si mostri più attiva nella risposta alla crisi. Il segnale del Jobs act è positivo perché, al di là dell’articolato (ancora in buona parte indefinito) va in questa direzione. È innegabile la sensazione che ci stiamo avvicinando a una fase nuova, che caratterizzerà i mercati nei prossimi due-tre anni. A lungo termine il problema è quello di evitare di limitare la crescita nel timore che i tassi alti creino gravi difficoltà ai debitori più deboli.
Nel frattempo accontentiamoci delle armi a disposizione: il calo delle materie prime, che favorirà il riequilibrio dei conti, e il dollaro alto, che favorirà l’export. Il 26 di ottobre l’Asset quality review confermerà che le banche di casa nostra vanno meglio del previsto e, come anticipa Draghi, presto il credito affluirà più corposo. Ma il problema, già oggi, è trovare buone imprese che meritino credito o imprenditori che abbiano voglia di rischiare.