Venticinque anni fa, introducendo il Rapporto al Club di Roma Tecnologia dell’informazione e nuova cultura, gli autori Hiroshi Inose e John Pierce, esordivano citando i celebri versi dei Cori della Rocca di T. S. Eliot «Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?» e proseguivano così: «A queste domande, l’analista di dati potrebbe a buon diritto aggiungere: dov’è l’informazione che abbiamo perduto nei dati?».
È un’aggiunta che eleva di un livello il grado di riduzionismo indicato dai passaggi precedenti: si può ridurre la vita a sopravvivenza, si può ridurre la saggezza a puro sapere e ridurre il sapere a informazione; infine si può smarrire l’informazione nei dati.
Oggi questi interrogativi diventano ancor più drammatici in un mondo sommerso dai Big Data, inondato da un flusso ininterrotto di informazioni frammentate e non sempre attendibili; un mondo che si autodefinisce Knowledge Society, Società della Conoscenza, ma dove risulta quanto mai arduo acquisire conoscenze solide e che non si fermino alla superficie dei problemi; per non parlare della saggezza, accanto alla quale il più delle volte appare il messaggio «non pervenuta».
Sarà davvero colpa dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale? O forse bisogna scavare un po’ più in profondità e cercare le radici culturali di una situazione che ci faccia trovare sprovveduti di fronte all’avanzata delle tecnologie e indifesi di fronte al bombardamento informativo, incapaci di vagliare le informazioni ricevute, di cogliere le notizie che realmente ci possono servire, di discernere tra news e fake news.
La ricerca di queste radici è un’impresa non facile.
Possiamo però limitarci a considerarne il riflesso sulla situazione scolastica e indicare una prospettiva che può tradursi in proposte ed esperienze didattiche precise – come quelle raccontate in questo numero nella sezione Scienza@Scuola – e suggerire criteri per valutare l’opportunità e l’efficacia delle nuove tecnologie dell’informazione.
La prospettiva è quella che abbiamo sintetizzato nel titolo: Conoscere per crescere.
Si tratta di mettere in primo piano la preoccupazione educativa e misurare ogni esperienza, ogni momento scolastico, ogni strumento e sussidio in rapporto al guadagno educativo che consente di ottenere; la crescita della persona è l’obiettivo anche della conoscenza scientifica, che può contribuire – e ha storicamente contribuito in molti casi – allo sviluppo di aspetti e dimensioni umane fondamentali.
Indicare nella crescita della persona il criterio discriminante ha almeno due importanti implicazioni.
Non è una sorta di «crescita media» che interessa.
Si tratta di guardare a ciascuno studente per quello che è, di aiutare il suo personale cammino di maturazione, di vedere come in ciascuno l’acquisizione di conoscenze e competenze si compone organicamente nella costruzione di una personalità e lo mette in grado, nel tempo, di rispondere nei modi più adeguati alle molteplici e varie sollecitazioni della realtà e di relazionarsi con tutto e con tutti.
La seconda implicazione parte dalla considerazione che non si cresce se non unitariamente.
L’aumento di specifiche conoscenze in particolari ambiti o la padronanza di particolari tecniche di per sé non segnalano l’attuarsi di un processo di crescita se non si integrano in un quadro più ampio e globale.
Lo sguardo dell’educatore dovrà essere puntato sull’unità della persona e su come le specifiche conoscenze stanno favorendo il consolidarsi di una identità e di una capacità di approccio unitario alla realtà.
Tanto più oggi, in un contesto dove prevalgono lo specialismo e la frammentazione.
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Mario Gargantini
(Direttore della rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 68 di Emmeciquadro