L’ultima meraviglia made in China si chiama Xiaomi che sta per “piccolo riso”. L’azienda, fondata nel 2010 da giovanotto di nome Lin Bin assieme ad altri cinque coetanei più un venture capitalist di nome Lei Jun, ha venduto 7 milioni di smartphone nel 2012, 18 milioni nel 2013, s’avvia a piazzarne circa 60 milioni nel 2014. L’obiettivo è di arrivare in pochi anni a quota un miliardo di pezzi venduti. Non solo in Cina ovviamente. Merito del prezzo, più o meno la metà del corrispondente iPhone, ma anche delle prestazioni del suo prodotto, Mi4, competitivo con il cugino maggiore americano. Intanto Xiaomi, che ha già reclutato manager di Google e di Apple per crescere fuori dai confini cinesi, sta sperimentando nuovi tools: una telecamera per collegarsi in tempo reale con l’ufficio o casa, prezzo di listino 23 dollari. Oppure un orologio da polso che controlla il numero di passi effettuati in una giornata piuttosto che le ore di riposo, monitorando sia il sonno profondo o rem che il dormiveglia. Costo? 13 dollari.
Non è difficile pensare che Lin Bin possa diventare il nuovo Jack Ma, l’insegnante di inglese sbarcato a Seattle a fine anni Novanta che ha dato vita ad Alibaba, colosso dell’e-commerce che vale quasi 300 miliardi di dollari. In settimana, la ricorrenza del Single day’s, la festa dei cuori solitari nata all’università di Nanchino più o meno 25 anni fa, ha permesso di misurare l’energia di questi colossi della new economy: sui siti di Alibaba, martedì 11 novembre, sono transitate più di 500 milioni di operazioni di e-commerce per un importo di 9,3 miliardi. Merito del marketing: il giorno del Single’s day le aziende che operano su Alibaba propongono grossi sconti. Ma anche di una straordinaria capacità organizzativa, visto che Jack Ma garantisce la consegna entro il sabato. E finanziaria, perché la società, che ora promette di espandersi nel campo dell’assistenza sanitaria è anche una banca elettronica che ha messo in ginocchio i gruppi tradizionali.
Le due case history cinesi possono farci da guida nei nuovi equilibri del mondo emerso dalla grande crisi. Già, sembra un non senso parlare della crisi al passato se si pensa alle miserie della casa europea. L’Italia, sostiene Moody’s e ribadisce l’Ocse, rischia di non andare oltre la crescita zero anche nel 2015. Le previsioni sul Pil del terzo trimestre, in uscita oggi, non promettono nulla di buono. Intanto la Germania, ex locomotiva d’Europa, rallenta in maniera vistosa senza correre ai ripari: di fonte alla richiesta ormai generale di avviare un nuovo ciclo di investimenti, il ministro Wolfgang Schaueble si è limitato a offrire un obolo di 10 miliardi, quasi ingiurioso di fronte alla gravità della situazione. Anche i 300 miliardi ventilati da Jean-Claude Juncker, presidente dell’Ue azzoppato dagli inghippi fiscali del Lussemburgo ancor prima di mettersi in moto, sono in realtà ben poca cosa rispetto a quel che Usa, Giappone e Regno Unito hanno investito per sfuggire alla deflazione.
Sta così maturando un nuovo scenario di crisi, più grave di quello del 2011/12: allora l’eurozona ha corso il rischio del collasso dell’euro sotto i colpi dei mercati. Oggi, come scrive sul Financial Times Wolfgang Munchau, i mercati rischiano di assistere impotenti al collasso della politica, scandito dall’avanzata di Marine Le Pen in Francia, di Podemos in Spagna, dell’Ukip nel Regno Unito e così via.
In questa cornice più drammatica che deludente si deve prender atto che il mondo, dopo aver atteso invano che l’Europa uscisse dalla sua empasse infinita di vertici, esami e controesami dell’Eurostat e dispute sui parametri di Maastricht, è ormai andato oltre. Vale per gli Stati Uniti, decisi a uscire gradualmente (ma non troppo) dall’emergenza finanziaria, dopo sette anni di tassi a livello zero o quasi. Vale per l’Asia, la nuova grande protagonista degli equilibri mondiali. Il vertice di Pechino ha sancito i nuovi equilibri: Cina e Stati Uniti hanno raggiunto un accordo di massima sul clima. I due paesi, nonostante l’aspra rivalità, hanno anche siglato intese storiche sul fronte della formazione scolastica e dello scambio di tecnologie.
L’impronta di Pechino avanza, dopo l’Africa, anche in America Latina: la banca centrale cinese sta fornendo, ad esempio, all’Argentina i mezzi finanziari per evitare l’ennesimo default. E gli esempi potrebbero proseguire. Ma basta questo per sottolineare un dato ormai evidente: solo pochi anni fa nessuno avrebbe pensato di affrontare i temi-chiave del mondo in un tavolo in cui fossero assenti i rappresentanti dell’Europa oggi alle prese con situazioni di crisi in cui si rivela debole (vedi Ucraina) se non impotente (Libia).
Per carità, il Vecchio Continente è ancora un posto in cui si vive meglio che da altre parti. Ma prendiamo atto che le imprese innovative, che si chiamino Facebook, Google, piuttosto che Xiaomi o Alibaba, nascono altrove. E che le grandi rotte dell’educazione, della tecnologia, così come dell’istruzione d’élite, frequentano sempre meno i santuari europei. Né illudiamoci che lo shopping asiatico in Europa, Italia compresa, punti a carpirci chissà quali tecnologie. È in atto, dopo il travaso di ricchezze, un riassetto dei poteri da paesi fortemente indebitati, con un forte carico previdenziale e una bilancia demografica negativa, ad aree più dinamiche, con forti tassi di crescita del Prodotto interno lordo.
La Grande crisi, in questo senso, è stata stavolta davvero diversa da quelle che l’hanno preceduta. In passato, infatti, tutte le economie industriali entravano in recessione quasi in sincronia, per un eccesso di produzione rispetto alla domanda e ne uscivano tutte assieme dopo una fase di austerità. Stavolta no: qualcuno dalla crisi c’è uscito, qualcun altro galleggia senza saper incollare i cocci del vecchio mondo. Non basta, insomma, sperare in una congiuntura migliore. O chiedere a Mario Draghi nuovi miracoli, pur necessari.