Il bollettino della crisi si è arricchito anche ieri di nuovi, tristi, capitoli. A novembre l’indice Markit flash Pmi composito sulla produzione dell’Eurozona risulta in calo a 51,4 punti dai 52,1 di ottobre, avvicinandosi al confine tra crescita e contrazione, fissato a 50 punti, toccato ieri dalle due più importanti potenze esportatrici del pianeta: la Cina e la Germania. Non va certo meglio in Francia: il dato sul manifatturiero scende addirittura a 47,4. Tornando all’Eurozona, si tratta del minimo da 16 mesi, cioè da luglio dell’anno scorso. Il risultato è anche al di sotto delle attese di alcuni analisti che indicavano per novembre un livello pari a 52,2 punti.
La contrazione riguarda tutti i settori: per i servizi l’indice cala dai 52,3 di ottobre ai 51,3 di novembre, il minimo da 11 mesi. Per il manifatturiero l’indice cala dai 50,6 punti di ottobre ai 50,4 punti di novembre, il risultato più basso da due anni. Anche l’Italia distribuisce la sua razione quotidiana di delusioni: gli ordinativi dell’industria sono scesi a settembre dell’1,5%. Il fatturato, al netto della stagionalità, registra una diminuzione dello 0,4% rispetto ad agosto.
Si può sperare in un’inversione di tendenza? Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d’Italia, con grande onestà intellettuale, dubita che ci possano essere motivi di conforto. “La stessa Banca d’Italia – ha detto – aveva previsto una piccola ripresa per il secondo trimestre 2014, ma non c’è stata. Poi per il terzo trimestre, ma non c’è stata. E l’ha fatto anche per il quarto trimetre: qui vedremo i risultati. Siamo di fronte a uno slittamento in avanti delle previsioni”.
Non è un fenomeno solo italiano. La settimana si è aperta con lo shock del risultato negativo del Pil giapponese, sceso dell’1,6% contro una previsione di crescita del 2,2%. Com’è possibile un errore nell’ordine di 4 punti percentuali rispetto a un’economia monitorata costantemente da imponenti uffici studi pubblici e privati? Più che rifarsi a errori individuali, si deve prender atto che i modelli econometrici in uso presso le banche centrali e i governi sono ormai incapaci di decifrare i comportamenti di società che ormai vivono sotto la cappa della stagnazione secolare. Il calo giapponese, ad esempio, si spiega in parte con il calo delle scorte. Ma, a sua volta, la decisione delle imprese di tagliare i magazzini riflette la sfiducia nei confronti della ripresa dei consumi delle famiglie dopo il brusco aumento dell’Iva nello scorso aprile: niente, a ogni latitudine, è più come prima sotto i cieli della deflazione.
Insomma, la salute dell’economia mondiale non migliora. E su questo concordano un po’tutti: il comunicato di chiusura del G20 promette sì “milioni di posti di lavoro”, ma accompagna l’augurio con una previsione striminzita: di qui al 2018 il mondo crescerà solo del 2,1%. Il che, se si tiene conto dei trend della parte del pianeta più dinamica (dal Messico all’Indonesia o alla Cina, seppur in frenata) sta ad indicare che per le economie (un tempo) sviluppate non si prevede gran cosa. A partire dall’Italia.
Non c’è dubbio, per riprendere le parole del capo economista di Markit, Chris Williamson, che “i responsabili delle politiche monetarie saranno indubbiamente delusi nel vedere che gli ultimi annunci e stimoli introdotti non stanno mostrando alcun segno di ripresa della crescita”. I numeri portano nuovo sostegno alla politica di Mario Draghi: l’Eurozona ha urgente bisogno di misure non convenzionali “senza necessariamente aspettare di valutare la reale efficacia delle iniziative annunciate in precedenza”, come sottolinea Markit. Ma non è affatto detto che l’iniezione di liquidità possa produrre il miracolo, come conferma l’esempio Usa: l’enorme aumento del bilancio della Federal Reserve, cresciuto di cinque volte dall’inizio della crisi, è servito a far crescere del 6% il Pil dallo scoppio della crisi Lehman Brothers a oggi: un’inezia. Difficile che la Bce da sola possa fare di meglio. Le ricette monetarie, da sole, servono a ben poco, come continua a notare il presidente della Bce, sollecitando l’azione dei governi e dei parlamenti sul fronte delle riforme.
Ci vogliono anche altre terapie, dunque, oltre al ricostituente del denaro basso “finché serve”. Per questo, però, occorre andare alle radici del problema: perché la domanda continua a latitare, soprattutto, in Europa e in Giappone? Come scrive Martin Wolf sul Financial Times, le spiegazioni possibili sono tre: 1) il tracollo del sistema finanziario, che ha minato alle fondamenta la fiducia dei mercati. Per ovviare alla crisi, in questo caso, occorre risanare i conti delle istituzioni finanziarie per poi procedere a iniezioni di stimoli fiscali e monetari; 2) questa ricetta, obietta Wolf, secondo alcuni non risolve le cause di fondo della crisi. All’origine del disordine finanziario c’è stato un accumulo di debiti sia pubblici che privati. Le economie sono incapaci di creare nuova ricchezza che si è riflessa in un surplus di risparmio rispetto agli investimenti; 3) La terza spiegazione verte sulla caduta degli investimenti, l’invecchiamento della popolazione e la minor crescita della produttività. Una combinazione perversa di fattori che pesa su tutti, assai di più su Giappone ed Europa rispetto agli Usa, ma comincia a condizionare anche la Cina.
I pericoli peggiori, però, li corrono l’Europa e il Giappone, Paese che da sempre vanta analogie (in campo demografico, ad esempio) con l’Italia. Siamo noi a dover far quadrare il cerchio: rimettere in circolo le ricchezze esistenti per finanziare lo sviluppo. Ovvero far ripartire gli investimenti, impresa che chiama in causa soprattutto le nuove generazioni. O si crea un ponte tra risparmio degli anziani ed energie dei giovani oppure non si andrà da nessuna parte.