L’elevato debito pubblico rappresenta per l’Italia un elemento di “vulnerabilità significativa”. È quanto emerge dall’Economic Outlook autunnale dell’Ocse, che si esprime in termini favorevoli sulla scelta di Francia e Italia che nelle rispettive leggi di stabilità hanno allentato il ritmo di raggiungimento del pareggio di bilancio. Abbiamo chiesto un’analisi al professor Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison.
Il vero problema è il debito pubblico o la sua sostenibilità?
Non mi meraviglia che l’Economic Outlook indica che il debito pubblico è un elemento di vulnerabilità dell’Italia. La vera novità è piuttosto che il capitolo di analisi generale del rapporto Ocse che riguarda l’Eurozona sottolinea che l’alleggerimento delle politiche fiscali di Italia e Francia è ritenuto opportuno per non deprimere l’attività economica. C’è quindi un endorsement molto forte da parte dell’Ocse sulle linee di politica economica individuate dall’Italia e dalla stessa Francia, che pure ha sforato molto di più di noi. L’Ocse dà ragione a chi sostiene che bisogna sfruttare tutti i margini di flessibilità per non distruggere la produttività, la crescita e l’occupazione. Non si esce da una crisi fiscale creandone una economica.
Quale analisi emerge dall’Economic Outlook sulla vera natura della crisi dell’Eurozona?
L’Ocse dimostra l’errore concettuale dell’Eurozona a spinta tedesca, la quale è convinta che l’Europa debba recuperare competitività per crescere. Un grafico del rapporto documenta che le esportazioni, cioè la quintessenza della competitività, stanno andando molto bene. Ciò tra l’altro avviene non per merito della Germania, ma di tutti i paesi dell’Eurozona. Su 28 Stati, ben 21 hanno il segno positivo per quanto riguarda la bilancia manifatturiera con il resto del mondo (escludendo cioè il commercio intracomunitario). Se l’Europa non cresce non è perché non è competitiva nelle esportazioni. La crisi in Europa ha fatto crollare i consumi, la spesa pubblica, gli investimenti, cioè le tre componenti interne del Pil, ma non la domanda estera netta. Questo è un elemento critico molto forte rivolto dall’Ocse alla politica Ue d’ispirazione tedesca.
Lo spread Btp/Bund è a 140 punti. Perché oggi non lo sottolinea più nessuno, mentre nel 2011 era il principale indicatore che guardavano tutti?
La principale differenza tra oggi e il 2011 è che tre anni fa non c’era la benché minima governance dell’Europa e dell’euro. Quindi il problema italiano era amplificato all’inverosimile dall’idea che non ci fosse una strategia europea di difesa dell’euro. Per questo l’Italia era percepita come un elemento di preoccupazione. Oggi la situazione è molto cambiata.
Che cosa è cambiato in questi tre anni?
In primo luogo c’è stato l’impegno preso da Draghi nel 2012, che disse: “Faremo qualsiasi cosa sia necessaria per salvare l’euro”. Ma soprattutto nel frattempo è stata costruita una serie di discorsi, impegni e ragionamenti che oggi portano a ritenere l’Eurozona meno fragile di allora. Il principale problema dell’area euro non è la credibilità dei conti pubblici, bensì la bassa crescita interna. Nel complesso però oggi l’Eurozona ha una salute molto più temprata, anche se ancora non perfettamente ristabilita, e nonostante il focolaio infettivo dell’assenza di governance non è più a rischio come nel 2011.
Che cosa ne pensa del piano Juncker che prevede 300 miliardi di investimenti?
Quello di Juncker funzionerà solo se sarà un piano con soldi veri. Se si metteranno sul piatto solo pochi miliardi di euro e si spererà di fare girare tanti soldi con delle leve finanziarie improbabili, non andremo molto lontano. Sposo in pieno la tesi di Quadrio Curzio, secondo cui è necessario che il piano Juncker sia molto ampio e che contempli conferimenti di capitali da parte dei Paesi membri, che siano eventualmente scorporati dai vincoli di stabilità. Se uno Stato versa delle somme a un fondo europeo per gli investimenti con l’obiettivo di rilanciare la domanda interna in Europa, sta svolgendo un ruolo che deve essere considerato un fatto eccezionale e scorporato dal deficit.
(Pietro Vernizzi)