Significato e Senso nel Lessico Scientifico
Prosegue la riflessione sul termine sistema dal contesto del linguaggio ordinario a quello del linguaggio scientifico. L’autore prende in esame esempi di sistemi attivi che interagiscono con l’ambiente esterno, tratti da diversi ambiti disciplinari; per mettere a fuoco infine, da questo punto di vista, la differenza tra viventi e non viventi. Una riflessione sull’omeostasi offerta in particolare a chi si occupa di biologia; uno spunto di interpretazione della realtà alla luce del quale si potrebbero rivedere molte delle concezioni riduttivistiche, ancora oggi diffuse, sulla vita.
Nella nota precedente abbiamo accennato alle molte valenze del termine «sistema», ma ci siamo poi soffermati sull’accezione più semplice, usata tradizionalmente dalla fisica delle particelle: un sistema è un insieme di corpi che si può trattare come un oggetto ben distinto dal resto dell’universo; insomma, in parole povere, un gruppo di cose che per una ragione o per l’altra, «stanno insieme». Un sistema così inteso si può presentare in forme diverse; per esempio, sei atomi di carbonio e sei atomi di idrogeno possono assumere oltre duecento configurazioni nucleari più o meno stabili (molecole), ciascuna delle quali corrisponde a un diverso minimo relativo di energia e, al livello macroscopico, a una sostanza chimica diversa.
Il riferimento alle configurazioni d’equilibrio di un insieme generico, però, è solo l’inizio di un lungo discorso, e vale solo per i capitoli più tradizionali della fisica, che tende a vedere tutti i processi naturali come evoluzione verso l’equilibrio, inteso come stato di minima energia. Domandiamoci: cosa c’entrano con un’idea del genere espressioni come «sistema montuoso», «sistema educativo», e così via?
Unitarietà e funzione di un sistema
Come dicono i testi, un gruppo di montagne si chiama «sistema» quando svolge una o più funzioni – separare due regioni, determinare la distribuzione delle acque, orientare o ostacolare i venti.
Come si vede, abbiamo ancora a che fare con un insieme di parti, ma non ci interessa più l’equilibrio statico, per sua natura passivo, bensì il fatto che le parti si comportano in modo coordinato e unitario nei confronti dell’ambiente. Certamente, non parleremmo di sistema se l’insieme fosse solo una combinazione occasionale, e quindi è sottinteso che ciò che stiamo chiamando sistema è qualcosa di stazionario, qualcosa che dura per un certo tempo; tuttavia l’aspetto che ci interessa è ben diverso da prima: non le sue configurazioni stabili ma la sua attività.
A pensarci bene, vale la stessa cosa per enti come il sistema nervoso di un animale. Lo chiamiamo sistema nervoso e lo studiamo nel suo insieme non per la sua stabilità o per il fatto che le parti hanno caratteristiche diverse da tutto il resto dell’organismo, ma perché, anche se sono distribuite in modo complicatissimo, le parti stesse svolgono insieme una particolare funzione – la trasmissione e l’elaborazione di segnali che provengono dal mondo esterno o che si scambiano tra loro le parti dell’organismo.
Abbiamo dunque buone ragioni per ritenere che tanto nel caso semplicissimo di un sistema montuoso quanto in quello del sistema nervoso di un animale superiore abbiamo a che fare con una classe di sistemi molto speciale. La nomenclatura in proposito non è definitivamente stabilita, ma possiamo senz’altro chiamarli «sistemi attivi», o «sistemi aperti».(1)
Caratteristica di un sistema attivo è di scambiare segnali con l’ambiente esterno tramite opportuni terminali d’ingresso e di uscita (input-output), in generale trasformando i segnali ricevuti e rinviando segnali di «risposta». Un esempio familiare sono i televisori, che ricevono sull’antenna segnali sotto forma di onde elettromagnetiche modulate e producono in uscita immagini, cioè segnali in luce visibile, sullo schermo. Analogo è un elaboratore elettronico (un computer), che è più versatile in quanto accetta segnali sotto forma di impulsi elettrici da tastiera, da supporto magnetico o da rete telefonica, e anche segnali ottici. Molto più complesso e adattato a segnali di natura diversa (essenzialmente chimici, meccanici e ottici) è un sistema nervoso.
Sono sistemi attivi anche dispositivi più semplici.
Una sveglia meccanica, per esempio, è un sistema che trasforma il segnale meccanico «lancette in posizione sette e un quarto» in un suono di campanello, perché in quella posizione le lancette fanno scattare la molla del campanello. Lo è persino una lampadina da notte, giacché il segnale meccanico «pressione sull’interruttore» produce il segnale elettromagnetico «luce dalla lampadina». Questi sistemi più semplici, tuttavia, stanno ai sistemi più complessi un po’ come una pompa a mano sta a una pompa automatica: mancano di quella caratteristica che si chiama «autoregolazione».
Humphrey Potter e l’autoregolazione
La scoperta (o invenzione) dell’autoregolazione ha cambiato tutta la civiltà moderna e, a lungo andare, ha consentito di capire la vita. Per chiarirne il significato e la portata, la cosa più facile è tornare alla storia, parlando di Humphrey Potter(2), un ragazzo inglese di dieci anni vissuto agli inizi del Settecento. A quell’epoca, dopo gli studi di Denis Papin (1647-1714), era maturata l’idea di fare una macchina a vapore e si era realizzata quella «atmosferica» di Newcomen, che consisteva in un enorme cilindro con stantuffo collegato a una estremità di un bilanciere, il quale portava all’altro estremo un peso da sollevare, per esempio un grosso recipiente pieno d’acqua.
All’inizio di un ciclo lo stantuffo si trovava in alto. Immettendo acqua nel cilindro e facendola bollire fino a far uscire il vapore dalla testa del cilindro attraverso una valvola come quella di una pentola a pressione, restava soltanto il vapor d’acqua sufficiente a tenere in alto lo stantuffo vincendo la pressione atmosferica. Immettendo rapidamente acqua fredda all’interno del cilindro si faceva condensare il vapore (803 grammi per m3 di acqua), e l’abbassamento di pressione faceva sì che lo stantuffo venisse spinto verso il basso dalla pressione atmosferica. Sotto l’azione di quest’ultima il bilanciere ruotava, sollevando il peso sospeso all’altra estremità.
Dopo aver parlato di queste cose, continua l’illustre naturalista e divulgatore francese Louis Figuier (1819-1894)(3): «La macchina di Newcomen esigeva la più assidua attenzione per parte della persona cui era affidato l’incarico di aprire e chiudere alternatamente i due rubinetti destinati l’uno a permettere l’ingresso del vapor acqueo nel cilindro, l’altro a favorire l’ingresso della pioggia d’acqua fredda destinata a condensare il vapore che avea già servito. Colla massima vigilanza per parte dell’incaricato, non si ottenevano più di dieci o dodici colpi di stantuffo per minuto; la più leggera distrazione del’incaricato bastava, non solo a ritardare il movimento della macchina, ma a comprometterne l’esistenza. […] «Nel 1713, un vispo fanciullo, per nome Humphrey Potter, era incaricato della manovra di quei due rubinetti in una macchina di Newcomen. Un lavoro sedentario e tanto noioso non si addiceva al carattere vivace del nostro Humphrey, tanto più che, a poca distanza dal luogo in cui era costretto a rimanere tutto il giorno, altri fanciulli recavansi invece a trastullarsi allegramente. Qual tentazione per il povero Potter! […] Egli si logorava la mente per trovare un modo d’allontanarsi dalla macchina ed andare a giocare senza che nessuno avesse a fargliene un carico, senza che il movimento della macchina subisse interruzioni.
La sua testa si esalta, la passione gli infonde il genio: Potter scopre dei rapporti rimasti fino allora inavvertiti. Uno dei rubinetti vuol essere aperto nel preciso istante che il bilanciere termina la sua oscillazione discendente: è mestieri chiuderlo, quando il bilanciere è al termine dell’oscillazione opposta. La manovra del secondo rubinetto è precisamente inversa. Le posizioni del bilanciere e dei rubinetti dipendono quindi l’una dall’altra. Potter trae tosto partito da quest’osservazione, ei riconosce che il bilanciere può servire ad imprimere agli altri organi tutti i movimenti richiesti dal gioco della macchina. Detto fatto, egli allaccia a ciascun rubinetto due funicelle di inegual lunghezza, e dopo vari tentativi ne fissa i capi a punti convenientemente scelti sul bilanciere; le trazioni che il bilanciere esercita sulle due funicelle salendo, le trazioni che esso produce sulle altre due funicelle discendendo, sostituiscono la mano del sorvegliante; per la prima volta la macchina a vapore cammina sola, per la prima volta si vede presso alla macchina un operaio solo, ed è il fuochista che di tempo in tempo ravviva ed alimenta il fuoco acceso sotto alla caldaia. […] Non occorre aggiungere che Potter, appena si avvide che la macchina andava stupendamente e senza alcun pericolo, andò tutto festante a trastullarsi con gli altri fanciulli. Ecco come in qualunque età lo spirito d’osservazione può produrre grandi risultati!»
Fin qui il Figuier.
Come abbiamo detto, quello che egli espone è fondamentale perché Humphrey Potter realizzò il primo esempio riconosciuto di retroazione (feedback): le corde da lui utilizzate trasmettono parte del segnale d’uscita (il moto del bilanciere) al terminale d’ingresso (il rubinetto dell’acqua fredda), così che una piccolissima parte dell’energia meccanica ottenuta serve per sostituire l’azione del pilota.
La sua trovata fu seguita, dopo una cinquantina d’anni, dal famoso regolatore di Watt, l’applicazione che rese possibile lo sviluppo delle locomotive a vapore, che raggiungevano a metà del 1900 i 190 km/h trainando un treno di 250 tonnellate.
Macchina di Watt (1765)
Un punto importantissimo è che una macchina così controllata, quando è in funzione, non cambia il suo stato, pur non essendo in equilibrio: la sua tendenza a fermarsi viene compensata dall’intervento di un suo proprio meccanismo, e rimane, come si dice, a regime; secondo una formulazione di Ilya Prigogine, illustre termodinamico scomparso nel 2003, è un «sistema stazionario fuori di equilibrio» (si dice anche «lontano dall’equilibrio»).
Organizzazione come principio di unità
L’invenzione di Humphrey Potter aveva una portata teorica grandissima, e alla lunga consentì di spiegare appunto l’esistenza dei sistemi attivi autoregolati.
Le caratteristiche principali di questi ultimi sono la capacità di ricevere, elaborare e trasmettere segnali e la capacità di mantenere proprietà costanti in virtù di meccanismi interni che compensano la tendenza a fermarsi e a deteriorarsi. Senza entrare qui nei particolari, ci soffermiamo sul punto concettualmente più importante, e cioè che queste caratteristiche non si possono attribuire alle singole parti, ma appartengono all’insieme: un sistema della classe che stiamo considerando si comporta come un singolo oggetto non perché abbiamo artificialmente distinto fra esso e il resto dell’universo, e nemmeno perché di fatto è praticamente isolato da tutto il resto (come per esempio il sistema solare), ma perché nei confronti dell’ambiente in cui si trova si comporta come un tutto unico.
Filosoficamente parlando, si può dire che in un sistema del genere vi è un «principio di unità», cioè qualcosa di non materiale a cui si possono attribuire le proprietà d’insieme. A un principio del genere stiamo pensando quando diciamo di un computer che «questo sistema sta eseguendo il programma X», non a quello che fa ogni singola componente o periferica. Così pure quando diciamo «Tizio sta parlando» non intendiamo riferirci a ciò che stanno facendo la sua lingua, la sua faringe, i suoi neuroni, e così via, ma a un comportamento globale di quel tale che dice addirittura «io sono Tizio». La lingua modula il suono prodotto dalla faringe, ma non stabilisce lei che modulazione deve dare; il cervello produce il messaggio, ma non saprebbe mai produrre né il suono né la modulazione.
Un sistema attivo è dunque caratterizzato da una cooperazione delle parti diretta a produrre un risultato d’insieme, in particolare ad assicurare una funzione nell’ambiente.
Questa caratteristica si può chiamare organizzazione, meglio ancora attività organizzata delle parti, e in ultima analisi è il principio di unità; giacché è proprio a essa che si riconducono quelle proprietà del tutto che sono nuove rispetto a quelle che derivano soltanto dalla natura delle parti. Ora, l’organizzazione non si può né vedere né toccare, non è qualcosa di materiale, anche se è attività di corpi materiali. E poiché nel mondo di oggi vi è chi rifiuta di ammettere che ci siano cose non materiali e che si possano attribuir loro delle proprietà e addirittura delle responsabilità, si hanno campi di ricerca che girano a vuoto.(4)
Il paradosso è che quegli stessi supermaterialisti molto spesso fanno campagne contro le compagnie multinazionali, accusandole non sempre ingiustamente di speculare sui bisogni primari della gente. Ora cos’è una multinazionale se non un sistema del tipo che stiamo studiando? E il fatto che le sue caratteristiche unitarie dipendano dalla presenza di un’organizzazione non è forse rivelato dal fatto stesso che si chiamano organizzazioni di vendita, organizzazioni di servizi, e così via? Se un’organizzazione del genere commette un reato si fa «saltare» l’amministratore delegato. Quest’ultimo però potrà essere accusato solo di non aver dato regole abbastanza precise, perché le decisioni operative vengono prese separatamente dai singoli reparti in vista del fine proprio dell’organizzazione in questione, la vendita di determinati beni o servizi. Se viene messo in commercio un prodotto che ha una caratteristica pericolosa quando viene usato in modi specialissimi, per esempio una centrifuga per frutta, chi è colpevole? Il magazzino che lo ha consegnato, il reparto di confezionamento, il reparto di montaggio, o chi altro? Difficile rispondere, perché ciascuno ha preso le decisioni nel suo ambito ristretto e ritenendo di fare il suo dovere nei confronti dell’azienda, quindi non ha fatto nulla di scorretto. Se qualcuno è stato danneggiato per essersi servito di un prodotto di una certa organizzazione, l’organizzazione stessa pagherà un indennizzo; ma non ci sarà nessun individuo da condannare, a meno che non si tratti di un sabotaggio.
L’omeostasi e i sistemi viventi
I sistemi attivi autoregolati hanno la caratteristica di conservare certe loro caratteristiche anche in presenza di perturbazioni impreviste dell’ambiente in cui operano. Questa caratteristica unitaria si chiama, in cibernetica, omeostasi. Un motore, un televisore, un pilota automatico, un computer sono in grado di mantenere invariate nel tempo certe caratteristiche opponendosi alle perturbazioni esterne, come abbiamo detto parlando di «sistema stazionario fuori di equilibrio».
Per esempio, il segnale che arriva all’antenna di un televisore subisce variazioni casuali. Se queste sono tali da alterare il contenuto del messaggio, non si può fare molto; in corrispondenza vedremo uno sfarfallio o un punto nero sullo schermo. Se invece la variazione riguarda l’intensità media del segnale in arrivo, si fa intervenire, in una forma adatta, proprio quel meccanismo di feedback che nel 1713 permise a Humphrey Potter di andarsene tranquillamente a giocare: se il segnale d’ingresso cresce, l’amplificazione si riduce automaticamente, se diminuisce, l’amplificazione aumenta. Allo stesso modo vengono compensate altre perturbazioni, e così vengono assicurate sempre le condizioni ottimali di funzionamento: il sistema televisore mantiene cioè tutte le caratteristiche di sensibilità, di risposta di colore, di gamma dei volumi audio e così via anche al cambiare delle caratteristiche dei segnali o delle condizioni di funzionamento (temperatura, umidità, eccetera) dei componenti elettronici.
Il caso di un televisore è un esempio tanto semplice (almeno per chi s’intende di elettronica) che suona esagerato applicargli un termine così ricercato; ma il termine stesso diviene indispensabile quando si prendono in considerazione sistemi autoregolati molto più complessi capaci di conservare un regime stazionario (e cioè delle caratteristiche invarianti) anche in presenza di variazioni notevoli e casuali delle condizioni di funzionamento.
Quando un sistema aperto autoregolato svolge numerose operazioni anche interne, l’omeostasi consiste in un insieme di meccanismi di controllo molto complessi, e assume il significato di «capacità di conservare la propria identità». Presa in questo senso, essa fornisce la chiave concettuale per capire come la discontinuità fra il vivente e il non vivente si concili con il principio dell’unità della natura.
Quella discontinuità ha fatto problema fin dagli albori dell’età della tecnica, quando si cominciarono a capire meglio le potenzialità delle macchine, così che Cartesio (1596-1650), Marin Mersenne (1588-1648), Julien O. de La Mettrie (1709-1751) costruirono la concezione dell’animale-macchina, e per contraccolpo riprese vigore il vitalismo, cioè l’idea che il vivente sfuggisse in qualche modo alle leggi che governano il mondo inorganico. Oggi la conoscenza delle basi chimiche della vita e lo studio dei sistemi autoregolati consentono di superare la difficoltà e tornare a quell’unità di visione del mondo che, seguendo Aristotele, era stata portata avanti nientemeno che da San Tommaso d’Aquino.
Nel linguaggio della teoria dei sistemi, la differenza tra vivente e non vivente consiste nel fatto che un tipico sistema fisico conserva caratteristiche invarianti nel tempo se si trova in un minimo relativo di energia (equilibrio stabile), mentre invece un organismo vivente, avendo un elevato grado di omeostasi, si comporta rispetto all’ambiente come un sistema stazionario anche se è fuori di equilibrio. L’omeostasi dei viventi arriva fino alla capacità di riparare i danni subiti (come per esempio, guarire da un gran numero di malattie), e deriva dalla presenza di un’organizzazione dinamica interna che è sempre al lavoro per compensare la tendenza alla corruzione.
Se viene meno l’organizzazione dinamica perché è resa impossibile la cooperazione fra le parti o con l’ambiente, la tendenza all’equilibrio statico riprende il sopravvento, ed è la fine della vita. L’analogia più semplice si ha nell’uomo stesso: una persona può stare in piedi per ore solo perché i «computer di bordo» – i canali semicircolari e la vista – inviano continuamente segnali al cervello e questo ai muscoli delle gambe. Se le continue rettifiche vengono meno, si cade alla minima oscillazione.
Naturalmente, come è accaduto altre volte nella storia della scienza, una volta caduto un dogma – quello secondo cui la permanenza delle proprietà si può avere solo in condizioni di equilibrio stabile – si scopre che i suoi limiti erano sotto gli occhi di tutti. Come abbiamo visto, l’organizzazione dinamica è propria di molti sistemi non viventi.
Da questo punto di vista, la differenza con i viventi è soprattutto quantitativa, perché in essi si ha un grado immensamente più alto di integrazione delle parti, ed entrano in gioco processi di tipo molto diverso, da quelli metabolici (come nel caso dei lombrichi, che trasformano i materiali del terreno in humus) alla trasformazione dell’energia degli alimenti in luce (come nel caso delle lucciole).
Per capire subito in che senso gli esseri viventi si distinguono qualitativamente da altri sistemi dotati di organizzazione e di autonomia basta pensare a un animale qualsiasi, diciamo il lupo. Questo è in grado di sopravvivere a malattie e ferite, cresce e invecchia, contribuisce a mantenere l’equilibrio dell’ambiente divorando erbivori malandati o morti. Generalizzando, osserviamo perciò che gli esseri viventi si distinguono dagli altri sistemi della stessa classe per almeno tre caratteri. Anzitutto, hanno una loro identità, anche quando si tratta di organismi unicellulari, giacché in qualche modo operano scelte con cui distinguono se stessi dal resto del loro ambiente. In secondo luogo, non sono veramente invariabili, ma cambiano nel tempo secondo un piano prestabilito la loro «natura» – che almeno fino a un certo punto è registrata nel DNA(5) -, così che crescono e invecchiano mantenendo sempre la loro identità. In terzo luogo, appartengono a un particolare ambiente e in esso hanno una particolare «nicchia ecologica», svolgono cioè una funzione ben precisa di mantenimento dell’equilibrio – per esempio, le iene si occupano dell’eliminazione di una particolare categoria di carogne; questa funzione varia da specie a specie, anzi, sia pure in limiti più ristretti, da individuo a individuo, in quanto in concreto ogni individuo opera in un particolare territorio.
Conclusione
Anche dell’uomo, naturalmente, si può dire quello che abbiamo detto degli organismi viventi in generale. Anche una graziosa ballerina o un vecchio professore sono sistemi aperti autoregolati in regime stazionario fuori di equilibrio, sono caratterizzati da un principio di unità che è l’attività organizzata delle parti, e non c’è nessun bisogno di invocare speciali leggi di natura per spiegarne il modo di essere.
Qualcuno vede in questo una conferma della tesi che tutte le disquisizioni sul valore della vita umana, sulla morale, sullo spirito si dovrebbero ricondurre a proprietà di una classe molto speciale di sistemi materiali. Invece, proprio qui la scienza è costretta a riconoscere i suoi limiti, come già fece Aristotele, venticinque secoli fa.
Essendo biologo, il «Maestro di color che sanno» identificò chiaramente il fenomeno vita con ciò che gli antichi chiamavano «anima», cioè proprio quel principio non materiale di unità, riscoperto con la cibernetica e la teoria dei sistemi, che consiste nell’attività coordinata e integrata delle parti, e a cui si possono ricondurre proprietà globali dell’organismo, come la sensibilità e la capacità di riprodursi.
Di qui, attraverso un cammino filosofico che risale a San Tommaso, viene la misteriosa espressione «l’anima è forma del corpo».(6)
[Immagine a destra: Giovanni Del Biondo, San Tommaso d’Aquino (1375), Tavernella Val di Pesa]
Aristotele stesso, però, nello studiare le proprietà dell’anima, aggiunse che la capacità dell’uomo di «sapere di sapere» non si può ridurre all’attività coordinata di un sistema materiale. (7)
San Tommaso d’Aquino partì da questa considerazione per far vedere che anche accettando la teoria aristotelica della vita resta vero che l’uomo differisce dagli altri viventi perché vi è nella sua anima una scintilla divina, un qualcosa di spirituale. Del resto, questa duplice natura dell’animale Homo sapiens è rivelata dalla sua ricerca di ideali e di valori, dal suo amore del bello, dal suo senso innato di una responsabilità verso qualcuno o qualcosa che è al di sopra di tutto.
Possiamo concludere con una considerazione filosofica molto consolante per chi vive in un mondo dominato dalla tecnica: proprio i concetti più avanzati della tecnica moderna, anziché fornire un supporto al materialismo, dimostrano che il pensiero scientifico arriva prima o poi al confine di un mondo di problemi di cui non può non ammettere la validità, ma che i suoi strumenti non gli consentono di affrontare.
Il mito secondo cui la matematica e la scienza esauriscono lo scibile, se si va a guardare da vicino, dimostra la sua inconsistenza proprio per effetto dei progressi tecnico-scientifici.
Giuseppe Del Re
(Ordinario di Chimica Teorica presso l’Università «Federico II» di Napol)
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Note
- Il termine «aperto» riguarda il fatto che il sistema interagisce con l’ambiente; non va fatta confusione con i sistemi «a circuito aperto», in cui l’aggettivo riguarda la struttura interna del sistema. Gli ingegneri chiamano i sistemi attivi aperti di preferenza «sistemi di controllo», perché i dispositivi artificiali che appartengono alla stessa classe hanno di solito il compito di controllare la regolarità di funzionamento di una macchina – come il regolatore di Watt che si studiava al liceo tanti anni fa.
- Non sarebbe sorprendente se la creatrice di Harry Potter fosse stata ispirata dalla figura storica di Humphrey Potter.
- Luigi Figuier, Il vapore e le sue applicazioni, trad. it. dal francese (Treves, Torino 1887).
- Si pensi per esempio al cognitivismo radicale, che cerca di capire il pensiero studiando esclusivamente il modo in cui i neuroni si trasmettono segnali.
- Il semplicismo tipico di molta scienza moderna arriva a pretendere che i geni contengano tutto ciò che è un individuo. Le cose sono molto più complicate, specie nel caso degli uomini. Per esempio, Karl Jung ha individuato nella nostra psiche degli «archetipi», strutture particolari che determinano le nostre risposte a certe situazioni; si può sperare di individuare i geni corrispondenti a questi archetipi? Non è una domanda facile. Inoltre, la natura di un individuo può essere determinata dalle condizioni in cui è avvenuta l’espressione dei geni. Si tratta dunque di un concetto che andrebbe rivisitato.
- Il concetto di forma secondo la metafisica di Aristotele e di San Tommaso richiede una discussione a parte.
- Tutto questo si ritrova nel famosissimo trattato sull’anima, in cui appunto Aristotele identifica ciò che in greco si chiama «anima» con ciò che fa dei viventi degli esseri «animati».
© Pubblicato sul n° 21 di Emmeciquadro