Da molti anni ormai mi occupo di Milano, e non solo come scrittore o come giornalista. Il primo frutto del mio lavoro fu il libro Il crollo delle aspettative, che fece discutere molto. Alcuni miei amici, impegnati a diverso titolo nella gestione della città, non gradirono il libro, dicendo che lo sguardo che gettavo su Milano era troppo cupo, negativo, e che a causa di questo pregiudizio io non vedevo l’abbondanza di positività di cui, viceversa, Milano era piena.
In realtà il mio libro non intendeva affatto parlare male di Milano. Era, anzi, un atto d’amore (come dissero molti altri), solo che l’amore richiede attenzione e, se occorre, severità: un padre che ama i suoi figli non li loda qualunque cosa facciano, ma li aiuta a crescere, usando spesso un po’ di durezza.
Lo stesso vale per chiunque abbia a che fare con la nostra città, sia che si occupi della sua gestione, sia che sia chiamato a raccontarla. Ed è necessario che gestione e racconto imparino a camminare insieme, imparando l’uno dall’altra senza avanzare troppo interessi particolari da un lato e snobismo intellettuale dall’altro.
La sostanza del mio libro, vecchio ormai di sei anni e quindi riferito a una Milano in parte diversa da quella odierna, girava intorno al tentativo di definire i caratteri principali della nostra città, che formano, tra tutti i rivolgimenti storici sociali e culturali, una linea di continuità: quella linea che, quando leggiamo “Le meraviglie di Milano” (De magnalibus Mediolani) di Bonvesin de la Riva, anno 1288, subito riconosciamo nei segni di uno sguardo familiare, per cui la qualità dell’acqua potabile o il numero di opere di carità o di maniscalchi sono altrettante “meraviglie”, tanto quanto un insigne monumento, un grande palazzo o una chiesa sfarzosa.
Questo sguardo ha attraversato i secoli, arricchendosi dei contributi della storia, sia religiosi (la grande stagione di San Carlo Borromeo, quella di don Gnocchi e di don Giussani) che laici (la presenza milanese di Leonardo, l’illuminismo lombardo, il liberalismo) senza mai tradire sé stesso.
Uno dei caratteri fondamentali – che stanno cioè alle fondamenta – di Milano è la sua irrequietezza fattiva. La realtà non lascia in pace lo spirito milanese, che è sempre alla ricerca di una comprensione più profonda delle cose e, insieme, della realizzazione concreta di cose nuove, in tutti i campi: basterebbe elencare la quantità di novità che la nostra città ha regalato al mondo, dal cattolicesimo sociale al design industriale. “Ideare” e “fare” sono per i milanesi due cose inscindibili: il pensiero a vuoto, la capziosità non fanno per loro.
I grandi Milanesi, spesso adottivi (ecco è un altro segno della larghezza di cuore della città), sono accomunati da questo tratto caratterizzante. Il Novecento ha prodotto, proprio qui, figure straordinarie, diversissime tra loro ma tutte legate da questa irrequietezza: dai già citati don Gnocchi e Giussani a Gadda e Testori, da Giò Ponti fino ad Alda Merini. E sono solo alcuni dei molti nomi che potremmo fare.
Io credo che questo sia un patrimonio da conservare, un bene da non mortificare anche quando si presenta nelle forme di una criticità che sembrerebbe mettere l’accento più sulle cose che non vanno che su quelle che funzionano. L’entusiasmo spesso un po’ ottuso, la tronfiaggine trionfalista non fanno per noi. Possiamo sorridere come bambini per l’illuminazione delle vetrate del Duomo o per l’apertura del Museo del Novecento, ma questo sorriso lascia poi il posto al bisogno di migliorare, di crescere, di andare sempre più in profondità. La nostra non è insoddisfazione (una vita insoddisfatta non è umana): è, piuttosto, il bisogno continuo di ripartire, di costruire cose nuove.
La nostra città sta attraversando oggi, almeno nelle parole di chi, nel mondo, fa opinione (per esempio il “New York Times”, che a sorpresa piazza Milano tra le prime cinque città al mondo da visitare), un periodo più luminoso rispetto a qualche anno fa, e l’emblema di questa ripresa è il nuovo Museo del Novecento.
Perchè il Museo del Novecento è così importante? Rispondo facendo due semplici osservazioni.
1) Per la prima volta dopo tanti anni, la nostra città, anziché importare cultura dall’estero (penso alle tante inutili mostre di Palazzo Reale o della Triennale, o a eventi pur interessanti come “La Milanesiana”, ma che potrebbero essere realizzati dovunque e usano perciò la città come contenitore e non come soggetto), ha il coraggio di presentare sé stessa e la propria storia lungo il tormentato XX secolo come qualcosa che possiede la forza di stare davanti al mondo, di essere a sua volta esportata. La realizzazione di un Museo del Novecento – che fa il paio con la bellissima mostra/museo del design allestita alla Triennale da Alessandro Mendini (altro grande milanese!) – può fare da volano affinché i moltissimi talenti che Milano produce (artisti, musicisti ecc.) non debbano poi andarsene all’estero per affermarsi nel mondo. Milano può far crescere i propri talenti, e sarebbe un peccato mortale se non ci provasse.
2) A questo va aggiunto il fatto, abbastanza inconsueto nel costume amministrativo di chi fa politica culturale, che il Museo del Novecento è uno spazio pensato a partire dalle opere che doveva ospitare. In Italia è consuetudine quella di aprire nuovi spazi espositivi o per ospitare grandi eventi senza avere un’idea chiara di cosa metterci dentro. Si interpellano le solite grandi firme dell’architettura per realizzare contenitori che spesso si rivelano scatole vuote, e questo perché sono stati pensati fin dall’origine come scatole vuote. Spesso la nomina di un presidente o di un direttore costituiscono l’unico vero problema (politico) mentre nessuno ha idea di cosa fare. Così alla fine tutto si risolve nella rimozione dei responsabili, ossia in un cambio di poltrona, quando le cose vanno male o quando cambia il colore della giunta comunale. Rispetto a questo andazzo occorre dire che il Museo del Novecento si muove nella direzione contraria: c’è da sperare che possa fornire un esempio utile per nuove realizzazioni.
Ciò detto, però, è bene non trasformare questa legittima soddisfazione in un pretesto per sedersi. La sedutezza è il nemico peggiore per tutti, ma specialmente per una città che ha il suo punto di forza non solo nella conservazione, ma anche e soprattutto nell’ideazione e nel continuo rilancio a tutti i livelli, compreso quello culturale.
Il Museo del Novecento, per esempio, è piccolo e va ampliato. La sua milanesità, rappresentata molto bene dalle sezioni su Umberto Boccioni e su Lucio Fontana, è il suo valore aggiunto, ma si tratta di un segno, di un’indicazione, non di un proclama: il Novecento ha conosciuto altri grandi artisti milanesi.
Non sarebbe giusto, ad esempio, relegare in altri spazi – piccoli musei specifici o quant’altro – avventure estetiche ed intellettuali di enorme portata quali l’architettura milanese del XX secolo (Giovanni Muzio, Piero Portaluppi, Giò Ponti, Aldo Rossi e molti altri) e la scuola di fotografia (Mario De Biasi, Gianni Berengo Gardin, Ugo Mulas, Gabriele Basilico, le agenzie Grazia Neri e Contrasto, e così via). Avventure il cui luogo naturale è il Museo del Novecento, che deve ospitare quanto prima opportune sezioni dedicate alla loro opera.
Il grande tubo al neon di Fontana che corona il museo, visibile anche dalla piazza, e così rappresentativo dello spirito milanese, non può segnare alcun punto fermo (Fontana abolì, se così si può dire, i punti fermi in arte): il senso del mistero che la sua opera ci comunica con tanta larghezza ci invita a non acquietarci sotto i nuovi tetti, come quello del Museo stesso. Allarghiamo questa bella idea, dunque: gettiamo un ponte tra i due palazzi dell’Arengario, chiediamo a un architetto milanese – come Muzio e Portaluppi che lo pensarono – di progettare quel passaggio, conquistiamo l’altra parte dell’edificio: la riflessione della città sul suo grande passato, a partire da quello recente, non si può fermare.
Diamo la giusta importanza alle valutazioni positive del New York Times. Ma il problema della nostra città resta invariato: trovare le energie per conoscersi meglio, per accrescere la stima nei confronti della propria storie e della propria unicità.