Il caporalato è definito come la forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, specialmente agricola, attraverso intermediari, i “caporali” per l’appunto, che assumono per conto dell’imprenditore operai giornalieri percependo anche una percentuale della paga giornaliera, spesso già molto al di sotto della paga sindacale e frutto di lavoro nero.
In provincia di Latina il caporalato è normalità, e migliaia di cittadini stranieri, spesso senza permesso di soggiorno, lavorano senza sosta dall’alba al tramonto tra Terracina, Sabaudia, San Felice Circeo e Fondi, anche per pochi euro all’ora. La nuova manovra finanziaria ha da poco introdotto pene più severe attraverso una norma che prevede fino a otto anni di carcere per chi sfrutta i lavoratori in maniera sistematica e violenta.
L’articolo 12 del decreto legge 138/2011 stabilisce infatti che “chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1000 a 2000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Costituisce indice di sfruttamento la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”. Eppure tutto ciò sembra ancora essere molto lontano dal poter estirpare questo fenomeno, essenzialmente per due motivi: molti lavoratori, proprio perché clandestini, non hanno la possibilità di denunciare gli sfruttamenti subiti, pena l’immediata espulsione dal nostro Paese; inoltre il nuovo reato è ancora difficile da configurare, e quindi anche da punire.
IlSussidiario.net ha chiesto un parere a Laura Zanfrini, professore ordinario di Sociologia della convivenza interetnica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: «In questi ultimi vent’anni sono prepotentemente tornati in auge questi sistemi di reclutamento che speravamo di aver ormai consegnato al passato. Questo è solo il primo dato di mercati del lavoro assolutamente premoderni dove non esiste alcun rispetto per i diritti dell’uomo, e due grandi determinanti in questo senso sono stati da un lato la trasformazione più ampia del mercato del lavoro, che in termini generali ha accresciuto l’area della precarietà e l’esigenza di contenere in ogni modo i costi del lavoro, anche attraverso il ricorso a soluzioni contrattuali al limite della legalità o addirittura illegali; mentre dall’altro lato c’è indubbiamente il fortissimo afflusso di lavoratori stranieri estremamente disponibili ad essere arruolati in condizioni irregolari. Queste due componenti hanno fatto sì che soprattutto in alcuni comparti, come quello agricolo e dell’edilizia, queste forme abbiano conosciuto una diffusione impensabile nel passato. Poi sottolineerei che, oltre al problema della salvaguardia dei diritti umani minimi, ci sono anche altre due gravi conseguenze collegate a questi fenomeni: innanzitutto il fatto che i lavoratori più disponibili “spiazzano” quelli che invece vorrebbero lavorare in condizioni dignitose e legali, creando quindi un effetto di “concorrenza sleale” che non va assolutamente sottovalutato. Inoltre, se prendiamo per esempio il settore dell’edilizia, con l’impiego di lavoratori in nero estremamente sottopagati che oltretutto potrebbero non avere neanche una professionalità adeguata, c’è il rischio che ciò che costruiscono non sia sicuro per altre persone, e troppo spesso l’aspetto della qualità del lavoro viene sottovalutato».
La professoressa Zanfrini continua a spiegare che «l’immigrazione in Italia è cresciuta a ritmi impensabili, soprattutto se pensiamo a quelle che sono le capacità effettive di assorbimento da parte del nostro Paese. Purtroppo il canale normale di ingresso nella nostra società e nel nostro mercato del lavoro è sempre stato quello irregolare, e anche la maggior parte degli ormai 5 milioni di immigrati regolari hanno comunque avuto un approccio illegale con la società italiana: questo ha fatto sì che diventasse un modello in cui è consolidata la convinzione che vale comunque la pena arrivare in Italia e che bisogna mettere in conto un periodo indefinito di irregolarità, di lavoro nero e nel peggiore dei casi di sfruttamento, sapendo che comunque prima o poi si riesce a regolarizzarsi, a ottenere un permesso di soggiorno e quindi anche a rivendicare i propri diritti. Questo è un modello decisamente perverso, non solo perché contribuisce ad allargare l’area dell’illegalità, ma perché veicola all’esterno l’immagine di un’Italia che vede la legalità come un optional».
Riguardo alla difficile configurazione del reato che stiamo commentando, la professoressa Zanfrini conferma che «questi sono settori produttivi dove è molto difficile individuare le responsabilità perché, usando nuovamente il caso dell’edilizia, tutto è ormai organizzato attraverso catene di subappalto che rendono molto complicato identificare l’impresa responsabile. La legge peraltro dovrebbe avere non solo sanzionare, ma anche avere una valenza più culturale, nel senso di segnalare la consapevolezza di un problema. Non dimentichiamo che queste forme di utilizzo del lavoro nero, spesso anche estreme e drammatiche, si sono potute radicare perché la nostra è una società che tollera troppo l’illegalità. Quindi accanto alla legislazione è proprio necessario fare un grande lavoro culturale di recupero del senso della legalità e della cultura dei diritti, altrimenti qualsiasi provvedimento non avrà mai un vero effetto deterrente significativo».
(Claudio Perlini)