In questi giorni Bruxelles e Berlino hanno reagito in modo nervoso e a volte aggressivo all’ipotesi che Syriza vinca le elezioni in Grecia e possa formare un governo. L’atteggiamento non è giustificabile né dal punto di vista formale, né da quello sostanziale. Si tratta, infatti, di un’altra intromissione in vicende interne a un Paese che segue le regole democratiche per decidere sul proprio governo. Naturalmente c’è diritto di critica. E il programma della formazione di sinistra appare populista e velleitario. Ma non spetta all’Unione esercitare ricatti di nessun tipo.
La Banca centrale europea, mentre annuncia che comprerà titoli di stato (vedremo quando, come e quanti non appena finirà la strategia delle parole e si passerà ai fatti), minaccia le banche greche: il loro accesso ai finanziamenti della Bce continuerà solo dopo la conclusione positiva del programma di salvataggio e di un accordo con la trojka (Ue, Bce e Fmi). Per questo c’è una scadenza, la fine di febbraio, che scavalca le elezioni (previste per il prossimo 25). E forse ciò potrebbe spingere Mario Draghi a rinviare il Quantitative easing che molti si aspettano venga lanciato nella riunione di giovedì 22, cioè tre giorni prima del voto.
Una conferma viene da come sono stati giudicati gli ultimi dati sui prezzi al consumo: anche se ormai viaggiano in territorio negativo, la Bce non parla di deflazione, ma di disinflazione spinta dalla caduta dei prezzi petroliferi. Segno che vuole ancora attendere dati peggiori? È un gioco pericoloso, forse troppo. Anche se non bisogna attribuire al Qe il potere di rilanciare l’economia reale, tuttavia può sventare il rischio che la stagnazione attuale diventi quella depressione di lunga durata che molti paventano.
Di fronte alle nuove incognite che vengono da Atene e ai brutti dai economici che arrivano persino da Berlino (la produzione industriale a novembre è stata leggermente negativa), la questione di fondo è se l’Unione europea può continuare ad affrontare caso per caso, passo dopo passo, una crisi che nel Vecchio continente non è ancora finita, ha cambiato fattezze (dalle banche agli Stati, dai prezzi alla crescita), ma accompagna ancora la vita di tutti noi.
Non solo i paesi deboli come l’Italia, anche quelli più forti dovrebbero avere interesse a gestire in modo coordinato e con un approccio comune questa fase economica. Come? Neutralizzando innanzitutto la mina dei debiti sovrani. Il percorso immaginato dal Fiscal compact non funziona. Finirà come il 3% che nessuno ha mai rispettato per davvero, a cominciare dalla stessa Germania, essendo una regola astratta prima ancora che rigida.
Tante idee bollono in pentola, anche quella di una conferenza internazionale. Certo, c’è un rischio di tempi lunghi, e i mercati ragionano sul breve termine, ma le loro brame potrebbe essere placate dalla prospettiva di una strategia comune dell’Ue, sostenuta dalla banca centrale. Una tale iniziativa dovrebbe coinvolgere la sterlina e persino il dollaro, perché l’obiettivo di un deleveraging ordinato che non ostacoli la crescita riguarda l’intera economia mondiale.
Sul che fare esistono ipotesi più disparate, a cominciare dal redemption fund (un fondo per il rimborso delle quote di debito pubblico superiori al 60% del Pil) proposto dagli economisti tedeschi. E sarebbe ora di aprire un dibattito concreto; ma quel che conta è la volontà politica. Oggi non c’è. Domani chissà. Inutile fingere, sulla Grecia si sta trattando con Samaras e con gli uomini di Tsipras. Fare il volto dell’arme per accontentare gli stolti e negoziare sotto banco è quel che ha sempre fatto in questi anni l’Ue, ma è esattamente quello che non dovrebbe più fare.
Peccato che l’Italia non sia stata in grado, nel suo scialbo semestre di presidenza, di far passare quanto meno un approccio metodologico diverso. Certo, le prossime regole di bilancio saranno un po’ più flessibili. Tuttavia siamo ancora davanti a concessioni, non a un modello nuovo di comportamento. Le novità sul calcolo del prodotto potenziale (concetto astruso e forse proprio per questo caro agli eurocrati), sugli investimenti statali e sulla valutazione delle riforme, potrebbe offrire all’Italia qualche margine di manovra in più. Non molti se resta il vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e Pil (nei primi nove mesi del 2014 è arrivato al 3,7%). E tuttavia sono scorciatoie tecniche di fronte alla debolezza della politica, perché i governi europei e i vertici dell’Ue non sono in grado di compiere scelte innovative, adattandosi alle nuove priorità dell’economia mondiale.
L’Europa è una lumaca e rischia di trasformarsi in peso morto. La produttività totale dei fattori (l’indice che meglio rappresenta la forza economica e il benessere della società) oggi è inferiore al 1980 in Italia, in Spagna, in Francia e persino nella Germania che molti indicano a modello. Negli Stati Uniti, invece, è di oltre un terzo maggiore. Mentre la Cina incalza. Non c’è un solo settore in cui l’Europa possa vantare un primato tecnologico. Negli anni ‘90 era più avanti nei telefonini, ma adesso ha perduto anche quel vantaggio di fronte alle innovazioni di Apple e alla potenza di Samsung. Ma sembra che nessuno se ne preoccupi davvero.
Il macellaio tedesco è pingue abbastanza per accontentarsi, meglio non cambiare nulla. Ma anche il vigneron francese è soddisfatto. L’italiano che vive di rendita o di assistenza e non paga le tasse, ebbene piange il morto e frega il vivo, secondo un detto marchigiano. Quanto alla Spagna, viva la movida.
L’europeo di oggi assomiglia all’ultimo uomo di Nietzsche: immerso nell’illusione del quotidiano, tutto il resto gli è indifferente. Non aspetta più nemmeno il superuomo. Sembra risvegliarsi di fronte al crepitio dei kalashnikov o al boato delle bombe del terrorismo islamico, ma è solo un breve sussulto nel suo lungo sonno.