«Prima ancora di essere un’eccellenza assoluta nel campo della cultura, Milano è una città bella. L’unica cosa che le manca è la comunicazione di quello che fa». Ad affermarlo è Andrée Ruth Shammah, regista e direttore del teatro Franco Parenti. La cui proposta a chi amministra Milano è allestire una serie di cilindri nel centro, sul modello di Parigi, per consentire a tutte le realtà culturali di informare i milanesi sulle loro iniziative. Sostenendo inoltre le diverse associazioni attive in città nella fase della comunicazione. Shammah rievoca quindi il periodo della sua vita in cui ha lavorato a stretto contatto con Giovanni Testori, osservando: «Sia quando cercava la fede sia quando l’ha trovata, la sua natura è sempre stata quella di un uomo irrequieto. Se fosse tra noi oggi, non si accontenterebbe dei risultati raggiunti da Milano, ma continuerebbe a viverne soprattutto la ferita, le contraddizioni, come ha sempre fatto».
Partiamo dall’articolo del New York Times che ha promosso la cultura di Milano. Condivide questo giudizio positivo?
Sono anni che Milano non si ama, anzi si denigra. In Italia nessuno ha mai riconosciuto le sue eccellenze, per farlo ci voleva il New York Times. Ma da noi, chissà perché, conta solo chi è considerato all’estero. Io vivo a Milano da quando sono nata, ma tutte le sere avrei qualcosa di bello da andare a vedere al punto che non riesco a fare tutto quello che vorrei. Le statistiche dicono che siamo la città con il maggior numero di volontari a livello nazionale. Gli italiani vanno a Londra per vedere gli spettacoli dei migliori registi e cantanti, e non sanno che magari una settimana prima quegli stessi artisti sono venuti a Milano. E’ un preconcetto difficile da spiegare. La Milano del commercio e quella della cultura non sono due città distinte: in entrambi i casi tutto nasce da uno scambio, da una capacità di rinnovarsi continuamente, di saper difendere delle cose del passato e nello stesso tempo di rimettersi in gioco.
Ma che effetto può fare Milano su un turista straniero?
Io la trovo una città bellissima, perché sovrappone gli stili e sorprende sempre con degli scorci inaspettati. A Roma e Venezia ti aspetti già di trovare la bellezza, Milano invece commuove perché è una città che non ha mai saputo di essere bella. E’ quanto di più ordinario si possa immaginare, e in questa normalità trovi sempre qualcosa che spiazza. Dai cortili, al parco, al Castello, tutto sembra fatto apposta per stupire nel momento meno saresti in grado di prevederlo.
Il Comune sta facendo il possibile per valorizzare questa bellezza?
Da questo punto di vista ci sono tante cose che non mi vanno bene. Per esempio non mi sono piaciute le luci dell’illuminazione di Natale. Milano infatti nel suo essere sempre diversa, innovativa, si adatta solo a delle decorazioni classiche. L’illuminazione di piazza della Scala mi piace perché è molto tradizionale, dagli alberelli all’illuminazione di Palazzo Marino. Al contrario, ci sono delle altre piazze in cui occorrerebbe essere meno disinvolti. In una città la cui è estetica è più compatta, puoi essere più fantasioso. Milano invece, pur essendo la città del design, nell’arredo urbano dovrebbe difendere la sua storia, il suo passato, le sue tradizioni. Proprio perché abbiamo i grattacieli, stiamo mutando pelle, perché nelle periferie ci sono interi quartieri che nessuno di noi conosce, vorrei che la città fosse più attaccata alle sue origini, a partire dai piccoli dettagli.
Lei ha lavorato a stretto contatto con Testori. Che cosa direbbe di Milano se fosse vivo oggi?
Testori ha sempre vissuto la ferita della città, denunciandone le contraddizioni, sia nel periodo in cui cercava la fede sia quando l’ha trovata. E’ stato un uomo sempre inquieto. Ha avuto soltanto un momento, nei Promessi sposi alla prova, in cui ha concluso la sua opera parlando della speranza. E’ il solo squarcio in cui possiamo trovare un Testori in qualche modo sereno. Nel resto della sua vita è sempre stato un artista inquieto e come gli artisti inquieti era sempre contro qualsiasi potere costituito. Questa era la sua forza, la sua ribellione, la sua rabbia. Credo che sarebbe solo ancora adesso. Quando è entrato in Cl ed è diventato un cattolico che professava la sua fede, la sua non era certo una posizione facile, non lo ha certo fatto per mettersi in un filone protetto. La sua era una battaglia precisa, oltre che una bella provocazione. E lo stesso vale anche per il modo con cui faceva teatro. Il suo dramma Interrogatorio a Maria è andato deliberatamente contro un clima culturale, rispetto a cui professarsi cattolico era anche un modo di essere «altro». E questo lo sarebbe anche adesso, in tutti i modi, perché era la sua natura e la sua forza.
Ma dopo Testori e dopo Strehler, Milano può ancora andare fiera del suo teatro?
Il Piccolo teatro di Strehler è stato il primo teatro stabile d’Italia, ed è il più importante ancora adesso, in quanto rappresenta un modello di servizio pubblico. Il primo teatro privato di servizio pubblico, con la corresponsabilità degli artisti, è stato il Teatro Franco Parenti, l’allora Salone Pier Lombardo, e di tutta la nostra categoria è senz’altro il più interessante. Il primo teatro d’avanguardia e di ricerca è stato il Crt. Il panorama del teatro a Milano è in assoluto il più interessante che ci sia.
Rispetto al resto d’Europa, che cosa manca ai teatri milanesi?
La comunicazione. L’amministrazione pubblica, invece di fare iniziative sue, dovrebbe mettere in rete le cose che facciamo. Sarebbe bello avere dei cilindri come ci sono a Parigi, in cui ciascuno può inserire i propri manifesti, per consentire a tutte le istituzioni culturali di presentare ai cittadini le proprie iniziative. La mia proposta inoltre è di organizzare una campagna di comunicazione molto forte, su cui il Comune dovrebbe investire. L’importante è mettere in luce quello che c’è, perché i teatri e le associazioni non hanno fondi né energie da investire in pubblicità.
Come valuta il lavoro di Luca Ronconi, regista del Piccolo teatro, che in passato è stata la «casa» di Strehler?
La storia di Strehler al Piccolo teatro è finita, quello di Ronconi è un altro modo di intendere il teatro. Quando c’era Strehler tutto s’impregnava del suo approccio, del suo modo, il Piccolo teatro lo aveva costruito lui, e vi interpretava quella che concepiva come una missione. Ronconi è tutta un’altra storia, sia di palcoscenico, sia di approccio alla comunità teatrale, è anche un’altra epoca. Ronconi ha sempre pensato molto alla scelta di testi, è uno scopritore di drammaturgie. Per Strehler il teatro era il suo cappotto, il suo vestito, tutto doveva esprimere l’idea che la poesia è in grado di fermare la barbarie, dare vita alla sua convinzione profonda che il teatro può cambiare la società.
(Pietro Vernizzi)