L’Italia ha deciso che non vuole il nucleare. Lo ha fatto anche sulla scorta dell’onda emotiva provocata dal disastro giapponese. Ma il Giappone che fa? Si tiene, comunque, il nucleare. L’11 marzo un terremoto di magnitudo 9 squassò la terra nipponica, provocando un devastante tsunami che investì anche la centrale atomica di Fukushima. Da allora, l’emergenza non è ancora stata risolta, dall’impianto continuano a uscire emissioni contaminanti, nel raggio di decine di chilometri le città ormai sono città fantasma. Eppure, a chi gli ha chiesto un commento sull’esito del referendum in Italia, il ministro dell’Industria Banri Kaieda ha risposto: che il nucleare «continuerà a essere uno dei quattro pilastri della politica energetica del Paese». Certo, il ministro ha detto di «comprendere» chi, in Giappone, vuole abbandonare l’energia atomica. Tuttavia ha pure dovuto ammetter che «l’erogazione poco flessibile dell’elettricità ha impatti sull’attività economica e la vita delle persone», mentre aumenta la paura per il rischio, in estate, di black out.
Dopo il disastro, quando il nucleare forniva il 30 per cento del fabbisogno energetico del Paese, sono rimasti in funzione solo 19 impianti su 54, mentre la percentuale di utilizzo degli impianti è scesa al 40,9%, il livello più basso dal ’79. Nel frattempo, il governo giapponese, a tre mesi dalla tragedia, ha varato un piano per aiutare la Tempo – la società elettrica che gestiva la centrale di Fukushima – a ha risarcire le persone danneggiate.