Il 13 agosto 2014, a Seul, l’International Mathematical Union (IMU) ha portato agli altari della Matematica quattro «giovani» ricercatori, assegnando loro il più prestigioso premio matematico, noto anche come «Nobel della Matematica»: la Medaglia Fields.
Sulla storia e sulle statistiche di questo premio si possono spendere molte parole, in particolare quest’anno, dove sono i primati a farla da padrone: la prima donna, Maryam Mirzakhani, che è anche la prima iraniana, il primo canadese, Manjul Bhargava, il primo brasiliano, Artur Avila, e il primo austriaco, Martin Hairer.
Questi dati sono interessanti forse, ma – e non me ne vogliano gli statistici – possono diventare scoop da buttare in pasto al grande pubblico che, in generale, non può cogliere il significato del lavoro di questi grandi studiosi.
La Matematica infatti condivide – e forse enfatizza – uno dei limiti che le scienze specializzate portano con sé: l’essere comprensibili solamente a un ristrett(issim)o gruppo di eletti. A noi resta solo la possibilità di immaginare questi uomini (e donne!) come geni inarrivabili, incomprensibili, un po’ superiori e forse – soprattutto per chi ha avuto una brutta esperienza con la Matematica in età scolare – saccenti e bizzarri. Io – devo ammettere – non li conosco personalmente, ma ho avuto l’onore e il piacere di conoscere due dei loro predecessori: Enrico Bombieri (per gli statistici, primo e unico italiano ad aver vinto tale medaglia nel 1974) e Laurent Lafforgue (nel 2002).
Quando li ho incontrati ho avuto un’impressione davvero diversa: persone innanzitutto innamorate della Matematica, servitori (incredibilmente) umili della sua armoniosa bellezza. Non avendo mai incontrato nessuno dei quattro vincitori, non posso dire con certezza lo stesso a loro riguardo, però vorrei almeno cercare di intuire la ragione per cui l’IMU li ha indicati come modelli esemplari di quello che un matematico deve essere. Certo, in fondo, quello che li ha mossi è la stessa passione che ho visto in Bombieri e Lafforgue, lo stesso gusto che provo anch’io nella mia ben più modesta ricerca.
Maryam Mirzakhani
Iniziamo da Maryam Mirzakhani: classe 1977, nata a Teheran, PhD ad Harvard nel 2004 sotto la direzione di Curtis McMullen e ora Assistant Professor alla Stanford University. I suoi ambiti di ricerca sono geometria e sistemi dinamici.
[A sinistra: Maryam Mirzakhani (1977 – …)]
Ognuno di noi ha dovuto – magari suo malgrado – studiare il famoso quinto postulato della geometria euclidea il quale afferma che, data una retta r e un punto P fuori da essa, esiste una e una sola retta parallela a r e passante per P. Tale affermazione non corrisponde in modo immediato all’esperienza dello spazio che possiamo fare (pensiamo alle rotaie di un treno, esempio di due «rette parallele»: al nostro occhio che le guarda, all’orizzonte sembrano incontrarsi… eppure non abbiamo nessun timore che, salendo su quel treno questi sarà costretto a fermarsi, perché sappiamo che quel punto non è «reale»).
Sulla base di questa «non-evidenza», all’inizio del XIX secolo Janos Bolyai (1802-1860), Carl Friedrich Gauss (1777-1855) e Nicolaj Ivanovic Lobacevskij (1792-1856) misero in discussione tale postulato introducendo le cosiddette geometrie non-euclidee, tra cui la geometria iperbolica, quella in cui le rette parallele passanti per un punto sono almeno due.
È proprio in questo ambito che si sviluppano i primi lavori di Maryam. Iniziamo da una definizione: una geodetica è una curva chiusa (per capirci: una circonferenza è una curva chiusa, un segmento no) su una superficie, la cui lunghezza non può essere accorciata tramite una deformazione di essa. Se la superficie ha una geometria iperbolica, il numero delle geodetiche la cui lunghezza è minore di un certo numero L cresce esponenzialmente con L, ovvero è asintotico (per i non addetti, si comporta come) a eL/L, per L grande.
Questo teorema, ormai classico, ha una meravigliosa assonanza con un altro teorema dell’aritmetica, che descrive la distribuzione dei numeri primi.
Maryam cercò di capire cosa succedesse per geodetiche semplici (cioè che non si auto-intersecano), dimostrando che in questo caso il numero è molto più piccolo, asintotico a c∙Lm, dove c ed m sono numeri che dipendono da alcune proprietà geometriche della superficie, tra cui il genere (semplificando, ma non troppo, il genere non è nient’altro che il numero di buchi della superficie, così che un pallone da calcio ha genere 0, una ciambella ha genere 1, un pretzel ha genere 3, eccetera.).
La sua dimostrazione riguarda una singola struttura geometrica, ma è basata su un oggetto misterioso – non solo ai non addetti! – che in qualche modo descrive tutte le strutture geometriche possibili aventi un certo genere fissato, chiamato spazio dei moduli. Non voglio addentrarmi oltre, ma vorrei sottolineare solo che la genialità di questa donna è strettamente legata al fatto che sia riuscita a trattare questo oggetto misterioso in modo efficace, perché, in qualche modo, lo vedeva bene, ne aveva una conoscenza più chiara.
Per capire questo, ognuno deve pensare a quando era alle scuole elementari e faceva le prime somme – quanta fatica! Poi piano piano ognuno ha sviluppato una conoscenza maggiore dei numeri tanto che ora è più facilitato a calcolare le somme. Ecco, come noi ora vediamo meglio i numeri, così lei vedeva e vede particolarmente bene questo oggetto! Successivamente, Maryam ha applicato questa sua conoscenza e intuizione ad altri problemi della geometria e non solo. In particolare, come accennato all’inizio, ha contribuito alla soluzione di problemi di sistemi dinamici, che sono sistemi che si evolvono nel tempo.
Quindi, una conoscenza più profonda con un grande impatto su vari fronti.
Manjul Bhargava
Il secondo vincitore è Manjul Bhargava: nato in Canada nel 1974, di origini indiane, cresciuto negli Stati Uniti e poi in India, riceve il suo PhD nel 2001 alla Princeton University – dove ora è professore – sotto la direzione di Andrew Wiles. Fin da giovane, questo matematico dalla straordinaria creatività aveva un particolare fiuto per risolvere problemi particolarmente eleganti, sviluppando metodi potenti che offrivano una visione più profonda (ancora una volta, vedeva bene, meglio!).
[A destra: Manjul Bhargava (1974 – …)]
Appena laureato, lesse un libro che è una pietra miliare della Matematica, ovvero le Disquisitiones Arithmeticae di Gauss. Questa bibbia – sia come importanza sia come volume – dell’aritmetica è ben conosciuta da molti matematici, ma pochi l’hanno effettivamente letta.
Manjul trovò in tale libro una grandissima fonte di ispirazione. Gauss era interessato alle forme quadratiche binarie, ovvero polinomi della forma ax2+bxy+cy2, dove a, b e c sono dei numeri interi. Egli sviluppò una ingegnosa legge di composizione tra forme quadratiche, ovvero un metodo di comporre due forme quadratiche per ottenerne una terza (così come la somma o la moltiplicazione sono dei metodi per comporre due numeri per ottenerne un terzo). Tale legge divenne, e rimane, uno strumento fondamentale nella cosiddetta teoria algebrica dei numeri. Leggendo le venti pagine di dimostrazione di Gauss, Manjul intuì che ci doveva essere una strada migliore.
Senza addentrarmi nei particolari della sua dimostrazione – che effettivamente trovò – vorrei sottolineare che per lui migliore significava più diretta, più elegante, più esplicita, qualcosa che, di nuovo, ha strettamente a che fare con una conoscenza più profonda, una visione più chiara. E la cosa straordinaria è che questa dimostrazione più elegante si poteva anche applicare ad altri casi, cioè a polinomi di grado più alto, trovando nuove leggi di composizione.
Egli seppe applicare queste sue nuove scoperte allo studio di altri oggetti fondamentali della teoria dei numeri, che sono i campi di numeri, sviluppando una tecnica, chiamata geometria dei numeri, che visualizza insiemi numerici come insiemi discreti (rudemente, griglie regolari) di punti del piano o dello spazio a più dimensioni.
Grazie a questi sviluppi, Manjul riuscì ad affrontare difficili problemi di geometria aritmetica, quali lo studio dei punti razionali (cioè punti le cui coordinate sono delle frazioni, quelle che si studiano alle elementari) di curve ellittiche e iperellittiche di grado più alto.
Questi oggetti hanno proprietà straordinarie dal punto di vista aritmetico e hanno anche un interesse pratico nella crittografia, quel ramo della matematica/informatica che si preoccupa della sicurezza delle informazioni (bancomat, password, comunicazioni militari, eccetera). Infine, vorrei ricordare che, oltre a essere uno studioso, Manjul è anche un esperto musicista (di tabla, strumento musicale indiano) e un grande comunicatore.
Passione per la bellezza e per la verità, scoperte e comunicate, su vari fronti. Non posso credere che questo sia solo un caso!
Artur Avila e Martin Hairer
Per quanto riguarda gli ultimi due vincitori, non potrò purtroppo essere dettagliato come per i primi due – spero non me ne vogliano né gli esperti né i diretti interessati – perché il loro campo di ricerca è troppo distante dal mio perché riesca a coglierne in modo significativo il valore.
[A sinistra: Artur Avila (1979 – …)]
Artur Avila è il più giovane dei quattro. Nato a Rio de Janeiro, ha solo trentacinque anni ma ha già contribuito profondamente alla teoria dei sistemi dinamici (quelli già presentati prima) che hanno «cambiato radicalmente il campo di studio, applicando efficacemente l’idea di rinormalizzazione come principio unificante».
PhD a soli ventun anni presso l’Instituto Nacional de Matemática Pura e Aplicada di Rio sotto la direzione di Welington de Melo, svolge ora attività di ricerca presso il CNRS francese. Grande esperto di analisi, Artur ha saputo utilizzare la sua conoscenza profonda nella teoria dei sistemi dinamici (sia classici sia stocastici – quelli in cui interviene il concetto di probabilità). In questo senso, la bellezza dei suoi risultati è legata a questo legame che ha saputo stabilire tra due discipline, l’analisi e la fisica-matematica, portando frutti a entrambe.
[A destra: Martin Hairer (1975-…)]
Infine Martin Hairer, austriaco nato nel 1975. PhD in fisica a Ginevra, con relatore Jean-Pierre Eckmann, è ora professore all’Università di Warwick. Ha ricevuto la Medaglia Fields «per i suoi contributi eccezionali alla teoria delle equazioni stocastiche alle derivate parziali, in particolare per aver creato una teoria per la regolarità di tali equazioni».
Le equazioni stocastiche descrivono sistemi in presenza di rumori casuali. Martin ha saputo creare una nuova teoria, per riuscire ad attaccare problemi fino allora considerati impenetrabili. Potremmo dire che ha saputo vedere meglio, più a fondo, creando delle lenti d’ingrandimento, dove altri vedevano in modo confuso. In questo un grande supporto gli è venuto dall’essere un abile programmatore, nel senso che, come lui dice, la programmazione gli fornisce molti esempi che aiutano l’intuizione.
Ci sarebbe sicuramente molto altro da dire e da approfondire. Questo articolo, in fondo, non è che un aperitivo! Eppure emerge un aspetto centrale della conoscenza matematica, che è il tema del vedere.
I nostri eroi non sono dei superuomini ma persone che, per dono ricevuto sicuramente, ma anche per paziente dedizione, sono arrivati a una conoscenza profonda degli oggetti che stavano studiando, tanto da essere in grado di possederli, svilupparli, intravederne legami, implicazioni ed efficacia. A coglierne, in una parola, la verità in modo più completo.
Mi immagino che parlare con loro dei problemi che hanno affrontato possa essere come essere accompagnati per la visita di una città da una persona che ci ha sempre vissuto e che la ama: ogni vicolo per costui è significativo.
Così scopriamo che, in matematica, la parola bellezza è legata a doppio filo con un’altra parola, tutta da scoprire e da sperimentare, che è la parola verità.
Mi auguro che tutti noi, nel piccolo o nel grande, possiamo fare un’esperienza di scoperta, ciascuno nel suo ambito, gustosa come la loro.
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Martino Borello
(Postdoc in Matematica all’Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna -Svizzera)
© Pubblicato sul n° 55 di Emmeciquadro