“Non tutti i mali vengono per nuocere”, diceva mia nonna quando in famiglia accadeva qualcosa di spiacevole. Io l’ascoltavo incuriosito, ma alla fine restavo convinto che si trattasse solo di una frase di circostanza. Con il senno di poi, però, mi viene da pensare che i proverbi hanno più che un fondo di verità. Guardando oggi come tutte le principali economie occidentali, per rispondere alla crisi, sono tornate a guardare con rinnovata attenzione alle politiche industriali, viene da chiedersi se c’era proprio bisogno della crisi per considerare il manifatturiero il pilastro dell’economia. Certo è che, dopo lunghi anni in cui finanza e servizi hanno dominato la scena economica, tecnici e politici sono tornati a ritenere l’industria elemento fondamentale per la crescita globale, e questo per merito, o colpa, proprio della crisi.
Accade così che le politiche industriali nazionali, dopo la deregulation e il libero mercato, oggi vogliano affrontare quelli che in passato sono stati i loro punti di maggior insuccesso: contrastare i fallimenti del mercato, stimolare crescita e occupazione, gestire i vincoli dei bilanci pubblici e rilanciare la competitività del sistema. Intendendo per politica industriale un insieme strutturato di interventi selettivi, deciso e organizzato da un soggetto pubblico e finalizzato a influenzare il sistema industriale in tutti i suoi settori, secondo direzioni, tempi ed entità diverse da quanto sarebbe avvenuto in sua assenza.
Se guardiamo all’Europa dobbiamo soffermarci sui tre passaggi cruciali: il trattato istitutivo della Cee (1957) non faceva alcun riferimento alla politica industriale (la libera concorrenza è sufficiente); il trattato di Maastricht (1993) in cui la politica industriale avrebbe dovuto divenire un obiettivo chiave del progetto Europa; l’Industrial Compact (2012) che ha come obiettivo per il 2020 quello di portare il manifatturiero a pesare il 20% del Pil europeo (manifatturiero che oggi contribuisce alla composizione del Pil Ue con una quota del 15%). L’obiettivo è chiaro: mantenere e sviluppare una forte base industriale in Europa. L’industria si è ripresaquindi il suo posto in poltrona.
Il risultato di questo cambio di rotta è evidente, dai governi agli opinion leader, dagli enti locali agli stakeholder, tutti sono tornati a parlare di politica industriale. Per renderci conto dell’impatto di questa inversione di tendenza sarebbe interessante sapere quante volte il termine “politica industriale” è stato pronunciato dai Tg in questi anni di crisi, e quante volte era stato pronunciato nel lustro precedente il 2009; io credo che il gap sia parecchio evidente.
La manifattura è tornata al centro in Europa come in Usa, ciò che accade nel mondo è emblematico. Gli Stati Uniti, benché non abbiano una politica industriale formalizzata, possiedono chiare leve strategiche come il Darpa, il procurement difesa, la focalizzazione degli strumenti di R&S verso lo sviluppo industriale e una rete nazionale per l’innovazione manifatturiera. In Germania, invece, il piano industriale è esplicito e mira a rafforzare la competitività industriale del Paese e i processi di trasferimento tecnologico da università e centri di ricerca di eccellenza verso il sistema industriale (High tech strategy for Germany 2006-2010). In Francia l’ultimo piano di rilancio del manifatturiero, varato nel settembre del 2013, ha messo al centro la difesa dei campioni nazionali e l’istituzione di 71 poli di competitività. Allo stesso modo il Regno Unito nel 2013 ha presentato la nuova Industrial Strategy che è incentrata sul supporto ai settori chiave, tecnologie emergenti e manifattura avanzata.
Nel passato l’Italia è stata Paese pioniere di efficaci politiche industriali, basti ricordare la creazione di Imi e Iri, i campioni nazionali Eni, Agip, Snam, Nuovo Pignone, Finmeccanica, Ansaldo, Alitalia e molti altri. Oppure la Legge Prodi del 1979 sulle grandi imprese in crisi, la finanziaria pubblica Rel (istituita nel 1982 per il rilancio dell’elettronica civile) o i salvataggi di Efim (liquidato poi nel 1992). Ma oggi? Oggi l’Italia rischia una progressiva marginalizzazione industriale anche a causa di una produttività stagnante.
Il Paese ha bisogno di rilanciare il sistema industriale, di rinnovare il proprio parco macchine installato, che ha un’età media troppo elevata, solo così potrà mantenere un livello di competitività adeguato ai moderni standard di fabbricazione e continuare a produrre valore aggiunto per non perdere il proprio peso specifico rispetto agli altri paesi industrializzati del mondo, che intanto continuano a dotarsi di sistemi per produrre sempre più avanzati. Abbiamo bisogno di una politica industriale che ci aiuti a difendere e ad acquisire vantaggi competitivi, perché il manifatturiero è lo strumento chiave per attivare le filiere dei servizi. Anche per questo la strategia industriale deve essere coerente con le caratteristiche dell’economia moderna e avere una visione che permetta di istaurare un criterio di priorità per selezionare i fattori inibitori della crescita, da rimuovere il prima possibile.
Per giungere alle migliori decisioni di politica industriale bisogna che responsabili delle istituzioni di governo, operatori economici e società civile agiscano all’unisono per dare al Paese una strategia di lungo termine. La visione strategica di un Paese è la rappresentazione di sintesi di ciò che una nazione è, di ciò che è la sua storia e di ciò che intende divenire nei decenni successivi; è ciò che indica le aree in cui si intende eccellere, così che tutte le componenti del Paese possano contribuire.
La visione strategica di un Paese deve contemplare infatti il patrimonio culturale e la sua vocazione storica, che altro non è che la visione condivisa dalla stragrande maggioranza dei cittadini di una nazione. L’Italia del secondo dopoguerra ha avuto una fortissima visione condivisa che mirava a un obiettivo unico: “ricostruire il Paese e farlo diventare efficiente e ricco”. Oggi abbiamo perso la visione strategica, ci siamo dimenticati del nostro passato, gli interessi personali prevalgono e si fatica a trovare un criterio per risolvere i conflitti.
In questo momento di smarrimento dovremmo ripartire da chi siamo. La visione strategica del Bel Paese dovrebbe basarsi sulle sue peculiarità: la capacità del fare industria che è estensione della capacità italiana di eccellere nell’arte, nella musica, nella cultura e nel vivere bene, da sempre, fin dalle sue antichissime origini. Del resto, la storia italiana è colma di esempi: la filosofia romana, la cultura civica romana, la politica inclusiva dell’Impero Romano, l’abitare romano (le terme), la religione cristiana, la tolleranza del Regno dei Normanni in Sicilia, il Rinascimento, la cucina e il vino (Lucullo, Apicio), il saper vivere (Petronio).
L’arte di vivere si può e si deve tradurre in produzione culturale e in capacità di farne godere agli altri. Attraverso una gestione integrata quest’arte porta infatti alla nascita dei prodotti e servizi che caratterizzano il nostro Bel Paese e il nostro made in Italy.
A partire dal nostro passato, che è anche nostro presente, dobbiamo costruire il nostro futuro, ritornando a fare industria, ricordandoci che questo è quello che noi sappiamo fare da sempre, perché, per tornare ai detti: “Non c’è vento a favore per chi non conosce il porto”. Ecco, l’auspicio è che l’Italia riconosca presto nuovamente il proprio porto e il proprio ruolo all’interno dell’Europa.