La passione per la ricerca e il lavoro paziente e tenace sono alla radice di qualsiasi scoperta. Come testimonia l’avventura umana e scientifica di Max Perutz che, applicando allo studio delle molecole biologiche metodologie di carattere fisico e chimico, ha compiuto un’impresa che sembrava impossibile: la risoluzione della struttura dell’emoglobina. Un’avventura che continua ancora oggi, quarant’anni dopo.
Si ringrazia Paolo Tortora, Ordinario di Biochimica presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca per aver favorito il rapporto tra la rivista e il professor Perutz.
Lei ha ricevuto il premio Nobel per la chimica per aver identificato la struttura dell’emoglobina e ha contribuito a importanti scoperte di biologia molecolare. Come e perché ha cominciato a occuparsi di molecole proteiche?
Il segreto delle cellule viventi sta nelle proteine. E la chimica della vita dipende da molecole proteiche che lavorano insieme in un modo meravigliosamente ordinato. Negli anni Trenta, quando ho cominciato, era stato appena scoperto che tutte le reazioni chimiche che avvengono nella cellula sono catalizzate da enzimi e che tutti gli enzimi sono proteine; ma si conosceva molto poco della chimica fondamentale di questi composti: nessuno aveva idea di come fosse la loro struttura e di come funzionassero. Le proteine erano delle «scatole nere».
Ci accorgemmo che senza conoscere la struttura delle proteine era impossibile conoscere il loro meccanismo d’azione: questo sembrava essere allora il problema centrale della biologia. Io ero ottimista, ma i miei compagni pensavano che fosse da pazzi affrontare un problema così impossibile e molti pensavano che buttassi via la mia vita su qualcosa che non sarei mai stato in grado di risolvere. Certe volte io stesso mi disperavo e mi chiedevo se non avessero ragione loro, ma in un modo o nell’altro sono riuscito ad andare avanti.
Di fronte a un campo di ricerca totalmente inesplorato, quali strumenti e metodi di indagine ha scelto?
Nel 1937 cominciai a studiare l’emoglobina: la molecola era facilmente reperibile e sembrava essere una delle poche proteine cristallizzabili; come disse una volta Joseph Barcroft, tutto ciò che allora si sapeva dell’emoglobina poteva essere scritto sul retro di un francobollo. [A sinistra: Max Perutz]
C’era un metodo, l’analisi cristallografica mediante i raggi X, che veniva utilizzato dai fisici per evidenziare la disposizione tridimensionale degli atomi nelle strutture cristalline.
[A destra: Sir Lawrence Bragg in un’immagine del 1965]
Era stato messo a punto da W. Lawrence Bragg e aveva permesso di risolvere la struttura del sale da cucina: analizzandone i cristalli si era identificata la posizione degli atomi di cloro e sodio al loro interno.
Quando cominciai a lavorare a Cambridge nessuno aveva ancora risolto la struttura di un composto semplice come lo zucchero comune, ma io ero talmente ambizioso che volevo risolvere la struttura straordinariamente complessa delle molecole proteiche. Si sapeva che esse contenevano migliaia di atomi e io non avevo idea di come potessero essere disposti, ma ero convinto che con questo metodo di analisi si sarebbe potuto risolvere il problema.
Quali difficoltà ha dovuto affrontare?
I miei primi risultati avevano mostrato che l’emoglobina era uno sferoide con una ben definita struttura atomica, in cui quattro gruppi eme erano approssimativamente paralleli uno all’altro: un concetto nuovo perché fino ad allora le proteine erano ritenute colloidi privi di una struttura precisa. Il problema era come procedere e il cammino sarebbe stato ancora lungo.
Se si espone un cristallo a una fonte di raggi X, su una pellicola fotografica posta dietro ad esso si ottiene una figura di diffrazione; essa è costituita da un insieme di punti. L’intensità dei diversi punti dipende dalla disposizione degli atomi nel cristallo.
Tuttavia, l’informazione così ottenuta non è sufficiente per risolvere la struttura: identifica l’ampiezza dei raggi diffratti, ma non la loro fase. Infatti, ciascuno di questi punti è prodotto da un’onda. Se si potesse percorrere ogni singola onda indietro fino a un preciso atomo del cristallo, ci si troverebbe o su un massimo di ampiezza o su un minimo o su un punto intermedio.
Senza questa informazione per ciascuna delle migliaia di punti, l’informazione registrata sulla pellicola fotografica sarebbe inutile. Questo sembrava impossibile da scoprire, ma era l’enigma che dovevo risolvere. Quindi giorno dopo giorno andavo al lavoro e misuravo migliaia di punti.
Quando la scatola nera cominciò a svelare i suoi segreti?
Nel 1953, sedici anni dopo che avevo cominciato, scoprii il modo per capire se questi punti erano sulla cresta o sul ventre dell’onda.
[A sinistra: Perutz e Bernal all’inaugurazione del Laboratorio di biologia molecolare nel maggio 1962. Al centro il modello a doppia elica del DNA]
Pensai di confrontare la disposizione dei punti ottenuta dalla proteina originale con quella ottenuta da una proteina a cui avevo «attaccato» un atomo di un metallo pesante, il mercurio. Sapevo che il loro trovarsi sulla cresta o no avrebbe dovuto produrre dei leggeri cambiamenti nella figura di diffrazione.
Ero nella camera oscura con il cuore in gola mentre sviluppavo queste immagini; confrontai le due figure di diffrazione, vidi la differenza e mi resi conto che il problema era risolto. Così mi precipitai su per tre piani di scale dal professor Bragg e gli chiesi di scendere: al primo sguardo egli si accorse che la strada era aperta. Fu un momento commovente e io ammirai Bragg perché aveva pensato a questo problema per anni ed ora un uomo più giovane di lui l’aveva risolto; egli non mostrò di essere risentito per questo e continuò a dire che io avevo scoperto una miniera d’oro.
Pensavo che sarei arrivato immediatamente alla struttura, ma non avevo fatto i conti con le difficoltà tecniche.
Occorsero altri sei anni di tentativi. Nel 1959, un mattino di settembre, emerse dal computer una serie di mappe che, per la prima volta, facevano capire come doveva essere realmente la struttura della molecola. Corsi a comprare dei fogli di plastica, delle puntine da disegno e una tavola di legno; stesi sulla tavola i fogli in cui avevo ritagliato le forme mostrate dal computer, li sovrapposi, e improvvisamente avevo davanti a me la molecola in tre dimensioni; era qualcosa che nessuno aveva mai visto, ed era fantastico, un’esperienza paragonabile alla scoperta di un nuovo continente.
Lei ha «diretto» il laboratorio di biologia molecolare del Medical Research Council fin dall’anno della sua fondazione, nel 1947. Da una piccola «unità di ricerca» in breve tempo divenne un grande centro di attrazione per numerosi ricercatori che vi hanno realizzato importanti scoperte. Come si svolgeva il lavoro?
La fondazione della Molecular Biology Unit fu un punto di svolta per il mio lavoro: io e John Kendrew, che dal 1945 collaborava alle ricerche sulla struttura dell’emoglobina, ne fummo i membri fondatori, ma presto si unirono a noi altri ricercatori.
[A destra: Max Perutz con il suo modello di emoglobina e John Kendrew con il suo modello di mioglobina nel 1962]
Francis Crick e James Watson erano stati tra i primi e ricordo bene quando, nel 1953, un lunedì mattina mi chiamarono e mi chiesero di dare uno sguardo al modello di DNA che avevano costruito durante il fine settimana. Non assomigliava a nulla di esistente prima era una strana struttura costruita di fili ritorti, ottone, alluminio tavolette. All’occhio di un chimico fu immediatamente chiaro che doveva essere giusto.
Nel 1957, quando Kendrew riuscì a identificare la struttura della mioglobina, si ebbero le prime conferme delle ipotesi di Watson e Crick, e Fred Sanger completò la sequenza dell’insulina, i tempi erano maturi per la costruzione del Laboratorio di biologia molecolare.
Io non volli essere il direttore del laboratorio, ma il «presidente» di un comitato direttivo costituito da Crick, Kendrew, Sanger e me.
Il comitato si riuniva raramente e questo mi lasciava libero di proseguire le mie ricerche: vedere il presidente al banco di laboratorio piuttosto che dietro una scrivania dava un buon esempio e teneva alto il morale. Il comitato non imponeva direttive di ricerca, ma cercava di attirare, o di tenere, giovani di talento dando loro mano libera. C’era una magnifica atmosfera creativa.
Il mio compito era di interessarmi alla loro ricerca e assicurarmi che avessero i mezzi per portarla avanti.
Che influenza ha avuto sulla sua vita e sul suo lavoro a Cambridge l’assegnazione del premio Nobel nel 1962?
Fece crescere enormemente la mia fiducia in me stesso. Io ero un chimico e lavoravo in un dipartimento di fisica su un problema biologico e c’erano tutti questi fisici intelligenti che conoscevano molta più matematica di me e mi sentivo sempre molto piccolo in confronto a loro e non ero molto sicuro di me stesso. In qualche modo il premio Nobel mi fece capire che forse ero piuttosto bravo nella ricerca e aumentò la mia determinazione di andare avanti.
[A sinistra: Perutz e altri componenti dell’unità di ricerca di biologia molecolare nel 1960]
L’esperienza mi ha insegnato che il lavoro sperimentale non dà frutto se gli scienziati non comunicano tra di loro. Per questo, nella nuova sede del laboratorio, inaugurata proprio nel 1962, abbiamo creato un «punto di ristoro» dove i ricercatori potevano trovarsi a discutere.
Le porte, prima di tutto quelle del mio ufficio, erano sempre aperte e gli strumenti scientifici erano condivisi e non custoditi gelosamente come proprietà privata. Ai seminari partecipavano gli scienziati di tutti i gruppi perché ognuno fosse consapevole del lavoro che si svolgeva in tutto il laboratorio.
Anche adesso ho bisogno della compagnia di altre persone per discutere le cose. Da questo punto di vista Cambridge è un posto meraviglioso: lavoro su molti argomenti diversi e quando incontro un ostacolo so che c’è sempre la massima autorità in quel campo con cui posso andare a discutere.
Penso che se fossi da solo non saprei come mantenermi vivo perché ogni attività dell’uomo ha una dimensione sociale. La scienza è un’attività sociale. Lo scienziato non è un uomo che si rinchiude nascosto in uno sgabuzzino cercando di pensare.
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A cura di Maria Cristina Speciani
(Caporedattore della Rivista Emmeciquadro)
Max Perutz
Nasce a Vienna nel 1914, in una famiglia di industriali tessili. Frequentando la facoltà di chimica a Vienna scopre il suo interesse per la biochimica; nel 1936 comincia a lavorare a Cambridge al Cavendish Laboratory, nel laboratorio cristallografico diretto da John Desmond Bernal. Da allora è sempre rimasto a Cambridge.
Tra il 1939 e il 1945, e in particolare dopo l’invasione dell’Austria da parte di Hitler, quando anche i suoi genitori sono costretti a esiliare, le sue ricerche sono sostenute da Lawrence Bragg, allora direttore del Cavendish.
Nel 1947 il Medical Research Council gli affida la guida di una «unità di ricerca» per la biologia molecolare che diventerà, nel 1962, il Medical Research Council Laboratory of Molecular Biology. Qui lavora cercando di identificare, attraverso la diffrazione ai raggi X, la struttura dell’emoglobina. Come racconta la biografia ufficiale, le sue ricerche avevano come obiettivo quello di gettare un ponte tra la biologia e la fisica.
Nel 1962 gli viene assegnato, insieme a John Kendrew, il premio Nobel per la chimica.
Come affermato nel discorso di presentazione, lavorando con pazienza e perseveranza, superando difficoltà che sembravano insuperabili, i due scienziati avevano spalancato la porta di un nuovo mondo ponendo le basi per comprendere l’enorme complessità degli organismi viventi.
È membro della Royal Society, membro onorario della American Academy of Arts and Sciences e, dal 1981, membro della Pontificia Accademia delle Scienze come esperto di biologia molecolare.
© Pubblicato sul n° 11 di Emmeciquadro